di Avv. Annalisa Imparato - L'esercizio della funzione ablatoria da parte della P.A. manifesta appieno il potere autoritativo ed imperativo di cui la stessa è in possesso, considerata la forte ingerenza nella sfera giuridica patrimoniale dei cives. Attraverso tale funzione, infatti, l'amministrazione pubblica ottiene, acquisendo coattivamente beni o costituendo diritti reali di godimenti su essi, utilità di cui necessita senza ricorrere agli ordinari strumenti di diritto comune.
Il genus ampio ed eterogeneo dei provvedimenti ablatori, con cui si limita la sfera giuridica del privato titolare di una posizione di interesse legittimo oppositivo avendo interesse a conservare la propria posizione soggettiva, include i provvedimenti ablatori reali quando hanno ad oggetto res, ablatori personali se ineriscono alla persona ed infine obbligatori quando impongono una prestazione obbligatoria al destinatario. La forza coercitiva di tali provvedimenti fa sì che la P.A. procedente ottenga utilità avvalendosi della propria potestà, si pensi all'imposizione tributaria o ai provvedimenti che restringono la libertà personale dell'individuo. Ad ogni modo tali atti, pur se diversi per contenuto e finalità, sono accomunati da questa forza autoritativa che, durante la procedura ablatoria, affievolisce le posizioni giuridiche originarie in interessi legittimi oppositivi meritevoli di tutela.
Orbene, il trasferimento coattivo di beni di proprietà privata in capo ad una P.A. per soddisfare interessi della collettività, si inserisce tra i provvedimenti ablatori reali attraverso i quali è possibile non solo trasferire diritti di proprietà assoluta ex art.832 c.c. ,bensì costituire diritti di servitù o diritti d'uso su beni di privati amministrati, limitandone fortemente il diritto dominicale. La particolare ingerenza a cui si assiste in tali casi, ha spinto il legislatore costituzionale a costruire un ventaglio di cautele intorno alle procedure de quo, per il rispetto del principio di legalità, che informa l'intera attività amministrativa, nonché' garantire forme di tutela effettive per il privato che subisce tali imposizioni coattive.
Il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, è, così, espressamente riconosciuto nella nostra Carta costituzionale all'art. 42 Cost. che, nel valorizzare la funzione sociale della proprietà
, ne ammette l'espropriazione solo se finalizzata a ragioni di pubblico interesse e se bilanciata da un giusto indennizzo in funzione riparatoria delle posizioni degli espropriati. Si desume come lo stesso legislatore costituzionale si sia preoccupato di contemperare due opposti interessi in gioco: quello della p.a. di reperire beni che possano soddisfare interessi appartenenti alla collettività dei cives; quello del privato titolare di un diritto soggettivo assoluto che subisce una perdita di tale diritto patrimoniale.È d'uopo premettere, per cogliere in pieno l'essenza della disciplina, che il diritto di proprietà, a differenza di quanto avviene all'interno della CEDU, in cui è annoverato tra i diritti fondamentali dell'uomo, è inserito nel Titolo relativo ai rapporti economici, evidenziandone la natura patrimoniale e non già fondamentale dell'uomo. Per tali ragioni il rimedio previsto è l'indennizzo, quale forma di ristoro derivante da atto lecito, al fine di riparare l'equilibrio economico alterato dal provvedimento espropriativo.
Dalla lettura analitica dell'art. 42 Cost. emerge dunque la necessità di un motivo di pubblico interesse, la previsione di un indennizzo, serio, congruo ed adeguato (come ha precisato in più pronunce la Corte di strasburgo) ed infine una previsione di legge. Il principio di legalità è, appunto, principio cardine dell'ordinamento giuridico in generale e dell'attività amministrativa in particolare, perché attribuisce alla p.a. un potere legalmente dato in forza di una norma attributiva a cui la stessa è tenuta ad aderire, nel rispetto dei canoni di buona amministrazione ed imparzialità ex art. 97 Cost.
Orbene tale norma di natura programmatica trova nel D.P.R. 327/2001 il proprio riferimento attuativo. Tale D.p.r. disciplinando la procedura di espropriazione per pubblica utilità, in connessione con la disciplina in materia di edilizia ed urbanistica, si preoccupa di scandire tempi e fasi dell'iter espropriativo, prescrivendo garanzie partecipative per i privati interessati, nonché criteri di determinazione per le indennità costituzionalmente previste.
La funzione ablatoria si innesta, come è noto, con la funzione di governo ed uso del territorio, perché attraverso i piani urbanistici locali si consente alla p.a. procedente di individuare aree da sottoporre a vincoli conformativi o vincoli di localizzazione finalizzati all'esproprio. I piani urbanistici sono atti amministrativi generali ed astratti, non riferibili a destinatari ex ante individuabili, che necessitano di essere attuati da provvedimenti applicativi a valle, attraverso cui la P.A. concretizza programmazioni effettuate a monte. Attraverso questi atti di pianificazione si procede alla zonizzazione, con cui si suddividono aree di un territorio in base alla destinazione funzionale, architettonica della stessa, apponendo a ciascuna aree vincoli conformativi del diritto di proprietà dei privati. La zonizzazione, non essendo finalizzata all'esproprio, comporta solo una conformazione dei diritti dominicali dei privati, i quali subiscono una limitazione del proprio ius aedificandi, perché tali vincoli incidono su distanze, volumetrie condizionando l'edificabilità delle zone. Per tali ragioni tali vincoli, diversi per natura e struttura rispetto ai vincoli di localizzazione, non sono indennizzabili né possono essere ristretti in determinati periodi di tempo, considerando che non precludono al proprietario l'esercizio pieno ed esclusivo del proprio diritto dominicale. Infatti incidono su aree vaste, hanno ad oggetto una generalità di beni appartenenti a soggetti indeterminati.
Diversi sono i vincoli finalizzati all'esproprio, che introducono la procedura ablatoria strictu sensu. Si tratta di vincoli che svuotano il diritto di proprietà, non incidendo su potestà edificatorie, ma precludendo i poteri di cui all'art. 832 c.c. Tali vincoli infatti seguono alla localizzazione all'interno degli atti di pianificazione, con cui si scelgono determinati suoli per la costruzione di opere destinate alla pubblica utilità o comunque per garantirne l'acquisizione coattiva alla P.A.
Attraverso questi vincoli, la cui approvazione nell'atto di pianificazione deve essere comunicata al destinatario ex art. 11 T.U. esproprio, si aprono le porte all'iter espropriativo il cui input va riscontrato proprio nell'apposizione del vincolo. Infatti, tale momento segna l'apertura della fase pubblicista di cognizione del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 133 CPA. Per le ragioni suddette, la posizione del privato deve essere contornata dalle doverose cautele: la comunicazione di avvio del procedimento; la durata massima di cinque anni per l'efficacia del vincolo; l'indennizzabilità della lesione subita.
Quanto alla previsione di una durata massima, il T.U. prevede che entro cinque anni vada necessariamente adottata la dichiarazione di pubblica utilità, atto attraverso cui la P.A. manifesta la volontà di addivenire all'acquisizione coattiva del bene, dichiarazione che può essere anche implicita al piano particolareggiato o al progetto definitivo dell'opera secondo il modello ex art. 11.
La giurisprudenza ha più volte stigmatizzato la prassi di reiterazione dei vincoli scaduti, guardando con sfavore tutte quelle forme di espropriazioni indirette o di valore attraverso cui la P.A. acquisiva il bene, attraverso una occupazione preliminare del suolo, deviando dall'iter legalmente descritto, con forte compromissione del principio di legalità. Attraverso la reiterazione dei vincoli, in sostanza, la p.a, senza addivenire alla dichiarazione di utilità pubblica, procedeva all'occupazione del suolo e alla trasformazione dello stesso costruendo l'opera progettata, precludendo al privato di ottenere l'indennizzo di cui ha diritto.
Tale prassi della reiterazione non è scomparsa, ma oggi è ammessa a seguito di una rigorosa istruttoria che deve confluire in una esaustiva motivazione delle ragioni di pubblico interesse che hanno spinto la p.a. a non adottare tempestivamente la dichiarazione seppur attraverso forme di dichiarazione implicite.
Orbene è chiaro che il momento centrale dell'intera procedura è la dichiarazione di pubblica utilità, provvedimento iniziale della procedura, immediatamente lesivo delle posizioni dei destinatari, pur se non provvedimento finale. Per tali ragioni è autonomamente impugnabile per vizi di legittimità.
Alla dichiarazione segue il decreto di esproprio, provvedimento conclusivo trascrivibile nei registri immobiliari, attraverso cui si trasferisce il diritto di proprietà sul suolo espropriato in capo all'autorità espropriante o al beneficiario se soggetto terzo. È il provvedimento ablatorio reale tipico impugnabile per i vizi di legittimità di cui all'art. 21 octies LPA da parte del privato destinatario.
È altresì possibile una forma concordata di conclusione della procedura attraverso un accordo di cessione volontaria, la cui natura giuridica è assai dibattuta. Da un lato vi sono coloro che vi ravvisano un accordo sostitutivo di un provvedimento autoritativo ex art. 11 LPA e, pertanto, impugnabile alla stregua di un provvedimento. Dall'altro quanti vi scorgono un negozio giuridico di diritto comune con conseguente applicazione delle impugnative contrattuali previste dal codice civile. Attraverso la cessione volontaria il dominus espropriato ottiene un indennizzo maggiorato per aver favorito l'acquisizione del bene senza ricorrere alla procedura espropriativa.
In entrambi i casi, comunque, il bene viene trasferito dal privato al beneficiario dell'espropriazione senza pesi e garanzie come stabilisce l'art. 25 T.u. esproprio.
L'indennizzo, il cui quantum è parametrato al valore venale del bene, considerandone l'edificabilità o meno, viene versato al momento successivo alla determinazione provvisoria ove accettata dal privato. È opportuno aprire una parentesi in ordine alle controversie aventi ad oggetto l'indennità di esproprio. In materia di espropriazione di pubblica utilità è prevista la giurisdizione esclusiva del g.a. secondo le direttive della ormai celebre sentenza della corte costituzionale 191/2006, ad esclusione delle controversie attinenti alle indennità di esproprio. Infatti, tali questioni patrimoniali attengono propriamente ad un rapporto obbligatorio tra dominus espropriato-creditore e beneficiario dell'esproprio-debitore, pertanto non è dato ravvisare alcun esercizio del potere autoritativo in tal caso. Si desume, dunque, la natura di diritto soggettivo della posizione del privato, conoscibile e tutelabile dal g.o. secondo l'ordinario criterio di riparto di giurisdizione fondato sul petitum sostanziale. L'espropriato può opporsi all'indennità offerta in via provvisoria attraverso un giudizio di opposizione alla stima ex art. 54 c.c. davanti al giudice civile.
Quanto alle controversie aventi ad oggetto l'adozione di atti di natura espropriativa e ablatoria, o comportamenti amministrativi riconducibili in via mediata o immediata al potere pubblico, la giurisdizione è esclusiva del g.a. trattandosi di particolare materia, ex art. 103 Cost., in cui si ravvisa quel nodo gordiano dato dall'innesto di posizioni di diritto soggettivo e posizioni di interesse legittimo. Ne deriva che il g.a. avrà cognizione anche delle questioni risarcitorie connesse all'adozione di provvedimenti amministrativi ablatori illegittimi o comportamenti amministrativi lesivi. Dunque l'intero iter espropriativo, dal momento dell'apposizione del vincolo di localizzazione fino alla conclusione con decreto di esproprio o con cessione volontaria, è rimesso alla cognizione del giudice amministrativo in via esclusiva, con connesse questioni risarcitorie. Invero non sempre l'iter procedimentale aderisce ai parametri legislativi, essendo numerose le ipotesi di deviazione dagli stessi.
Nelle procedure ablatorie si assiste sempre più spesso ad anomalie di sistema, essendo ricorrente nella prassi, l'ipotesi di occupazione dei suoli da espropriare senza titoli legittimanti, con esposizione a lesioni del diritto di proprietà del privato. La questione esposta presenta profili di interrelazione con la tematica delle espropriazioni di valore o indirette, in cui si assiste ad una forte deviazione dalla procedura legittima di esproprio con compromissione della posizione del privato.
Innanzitutto ,è bene chiarire che la P.A. può procedere legittimamente sia all'occupazione temporanea di suoli diversi da quelli da espropriare per facilitare le procedure di costruzione (ad esempio fissando un cantiere in un fondo adiacente per facilitare i lavori), sia all'occupazione preliminare del suolo da espropriare per iniziare tempestivamente i lavori di costruzione. Nel primo caso il proprietario del suolo dovrà avere un giusto ristoro per il tempo in cui è stato privato della disponibilità materiale del proprio fondo ai sensi dell'art. 50.
Diverso è il caso di occupazione preliminare o d'urgenza di suoli da espropriare.
In passato tale forma di occupazione era strettamente connessa a ragioni di urgenza ed indifferibilità da manifestare al privato attraverso apposita dichiarazione motivata. Oggi la norma prevede una procedura più snella, prescrivendo una semplice motivazione senza particolari indagini o formalità, al fine di anticipare l'occupazione ed avviare i lavori sul fondo. All'occupazione deve seguire, secondo l'iter previsto dalla legge, la cessione volontaria con un anticipo dell'indennità di esproprio oppure il decreto di esproprio conclusivo per il trasferimento coattivo del suolo di cui la p.a. espropriante è già nel possesso. Qualora all'occupazione non segua alcun titolo legittimante si pone un problema in ordine agli strumenti di tutela per il privato spossessato del proprio bene.
Prima dell'entrata in vigore del T.U., la giurisprudenza di legittimità della Suprema Corte di Cassazione riteneva che, ove all'occupazione preliminare fosse seguita la irreversibile trasformazione del fondo, la proprietà del fondo stesso si traferiva all'autorità espropriante, secondo la logica dell'accessione invertita, meccanismo inverso al modo di acquisto a titolo originario della proprietà ex art. 934 c.c.
Infatti si sosteneva che il bene pubblico, l'opera costruita o costruenda attraesse a sè il bene privato, per garantire la funzione sociale ex art. 42 Cost.
L'accessione invertita, meccanismo inverso all'art. 934 secondo cui proprietario del suolo diviene proprietario dell'opera, consentiva alla p.a. di acquisire coattivamente il bene a seguito del fatto illecito dell'occupazione materiale del fondo senza alcun titolo legittimante, ma attraverso la modifica radicale del suolo non ripristinabile, se non attraverso rimedi onerosi o comunque eccessivamente gravosi. Ne derivava l'acquisto a titolo originario da un fatto illecito, in totale spregio della posizione del dominus espropriato, per il quale residuava il solo rimedio risarcitorio ex art. 2043 c.c. trattandosi di illecito aquiliano istantaneo ad effetti permanenti. Era preclusa infatti sia la tutela possessoria dinnanzi al g.o. in ossequio ai principi dettati dagli artt. 2 e 4 L.A.C.; sia la tutela caducatoria dinnanzi al g.a. difettando un provvedimento da impugnare.
La giurisprudenza di legittimità, in successive pronunce, sottolineò che l'istituto dell'accessione invertita operasse solo ove l'occupazione fosse seguita ad una dichiarazione di pubblica utilità scaduta senza l'adozione del decreto di esproprio, oppure annullata o dichiarata nulla. Tutte le ipotesi di mancanza ab origine di un qualsiasi provvedimento danno vita all'occupazione usurpativa, lontana dalla fattispecie acquisitiva-espropriativa legata all'accessione invertita. In pratica, solo nel primo caso, cd. di occupazione acquisitiva, la p.a. poteva ottenere la titolarità del bene a seguito di un comportamento di fatto; mentre nel secondo caso non poteva maturare alcun acquisto trattandosi di fattispecie avulsa dalla procedura espropriativa.
È chiaro per quanto detto all'inizio, che una siffatta impostazione si poneva nettamente in contrasto con le esigenze di legalità e tutela imposte a livello costituzionale, al punto da suscitare l'avversione della Corte di Strasburgo la quale, facendo leva sull'art. 1 del primo protocollo cedu, promuoveva la natura di diritto fondamentale della proprietà. Secondo la corte Edu, l'accessione invertita o occupazione acquisitiva trascurava tout court il principio di legalità e comprimeva fino ad annullare la posizione del dominus privato di qualsivoglia forma di tutela reale, salva solo la tutela risarcitoria. Il rimedio risarcitorio seppur in grado di ristabilire l'equilibrio alterato dal fatto illecito della trasformazione irreversibile non era di certo in grado di favorire una adeguata tutela del diritto dominicale, considerando l'assenza di rimedi alternativi. La Corte inoltre sottolineava, a più riprese, che l'acquisizione di un diritto reale non può avvenire con un fatto illecito, perchè il principio di legalità, in senso formale e sostanziale, garantisce la privazione della proprietà attraverso regole accessibili e prevedibili.
La stessa giurisprudenza nazionale supportata dalla dottrina maggioritaria iniziò a guardare con sfavore a forme di occupazione che occultavano espropriazioni indirette, ritenendo vietate sia le occupazioni usurpative, in totale assenza di dichiarazione di d.p.u, sia le occupazioni acquisitive in assenza di decreto di esproprio .
La disciplina in esame, vede, chiaramente, la dialettica contrapposta della giurisprudenza europea garantista, supportata da una buona parte della giurisprudenza amministrativa italiana, e un'altra frangia della giurisprudenza nostrana tesa ad ampliare le fattispecie acquisitive in favore della pubblica autorità.
Il dibattito pretorio è sfociato nel testo unico del 2001 con l'introduzione di una norma dedicata appositamente al caso delle occupazioni sine titulo: l'art. 43 il cui excursus tormentato merita di essere accennato.
Per rimediare al vulnus di legalità, l'art. 43 introduceva, per la prima volta, un provvedimento di acquisizione sanante da parte della p.a. con cui in via retroattiva si sana l'illecito perpetrato. Attraverso questo provvedimento in sanatoria, la p.a, fermo l'obbligo risarcitorio, acquista tardivamente e retroattivamente il bene occupato sia in assenza di dichiarazione di pubblica utilità o perché mai adottata, o illegittima o nulla o scaduta che in mancanza di decreto di esproprio. In pratica la norma equipara l'occupazione acquisitiva all'occupazione usurpativa pura e spuria.
Prevedeva altresì una forma di acquisizione c.d. giudiziale, consentendo alla P.A. resistente nel giudizio restitutorio di chiedere al giudice di escludere la restituzione del bene disponendo il risarcimento per equivalente a favore del dominus espropriato.
Secondo i primi commentatori della norma, il legislatore aveva tentato un recupero di legalità, ancorando la fattispecie acquisitiva non più ad un comportamento fattuale illecito, bensì ad un provvedimento seppur tardivo. Si garantiva, cosi, al privato nello spatium temporis che va dall'occupazione sine titulo fino all'eventuale acquisizione sanante, di ottenere la restituzione del bene oppure chiedere il risarcimento per equivalente rinunciando alla restituzione. Mentre la p.a poteva paralizzare la richiesta del privato attraverso un provvedimento tardivo con acquisto a titolo originario, avendo efficacia retroattiva.
Quanto al rimedio risarcitorio, la giurisprudenza sosteneva che l'occupazione sine titulo producesse un illecito permanente e non più istantaneo ad effetti permanenti, come sostenuto dai fautori dell'accessione invertita. In tal modo la permanenza dell'illecito cessa con la restituzione del suolo oppure con il provvedimento sanante e il dies a quo della prescrizione quinquennale decorrerebbe dalla cessazione della permanenza. In ordine al quantum questo era parametrato, alla stregua dell'indennizzo, al valore di mercato del bene variabile in base all'edificabilità o meno del suolo.
Ciononostante, la corte di Strasburgo ha censurato nuovamente l'istituto dell'acquisizione sanante, considerate le affinità con le forme di espropriazione indirette, sostenendo che questa prassi invalsa nel nostro ordinamento producesse una violazione strutturale del nostro sistema.
Infatti, l'art. 43 favorendo una sanatoria, limitava la tutela del privato impedendo la restitutio in integrum del bene e il ripristino dello status quo ante, perché le forti garanzie costituzionali e pattizie impongono un ventaglio di strumenti di tutela alternativi e cumulativi tra loro, tali da precludere vuoti di tutela. La Corte EDU ha sottolineato la necessità di assicurare, in pratica, la restituzione del fondo al privato oltre al risarcimento per il periodo di occupazione illegittima, oppure una forma risarcitoria per equivalente laddove fosse lo stesso privato a non volere riottenere il bene rinunciandovi al diritto dominicale.
Tenuto conto delle pressanti censure la corte costituzionale ha cosi dichiarato illegittimo costituzionalmente l'art.43 solo per eccesso di delega ex art.76 cost. senza prendere posizione sul merito della fattispecie.
Nonostante ciò si è pronunciata, seppur in via del tutto marginale, sull'istituto con esito negativo per le ragioni già note.
Conseguentemente è entrato in vigore l'art. 42 bis già al vaglio, nuovamente, della Consulta, che non si è ancora pronunciata, per recente ordinanza di rimessione.
L'art. 42 bis, oggi vigente, stabilisce, ricalcando in parte il dettato dell'art.43, che la P.A. può, valutando comparativamente gli interessi coinvolti, adottare un provvedimento di acquisizione sanante per acquisire non retroattivamente il bene al proprio patrimonio. Si tratta un acquisto a titolo derivativo e non originario per il quale è disposto un indennizzo per il dominus espropriato, congiunto al risarcimento del danno maturato nella fase di occupazione sine titulo, comprensivo del danno non patrimoniale oltre che patrimoniale.
La norma, equiparando ancora una volta l'occupazione usurpativa a quella acquisitiva, prende le distanze rispetto alla precedente perché non ripropone il meccanismo dell'acquisizione giudiziale restringendo l'alveo dei modi di acquisto coattivo del bene. Inoltre, equipara al trasferimento coattivo dei diritto di proprietà, la costituzione di diritti di servitù su fondi serventi di privati.
Orbene, seppur parzialmente difforme, la norma sembra riproporre quelle forme di espropriazione larvate che tanto la giurisprudenza ha voluto stigmatizzare. Infatti, è stato sostenuto che il provvedimento tardivo regolarizza un illecito della p.a che procede alla trasformazione di un suolo in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo. Inoltre, privilegia la posizione della p.a. condannandola ad un indennizzo a fronte di un fatto illecito e non già, come dovrebbe essere ex art.2043 cc, ad un risarcimento. Secondo la dottrina e la giurisprudenza il legislatore avrebbe dovuto favorire forme di restituzione o dunque tutela reale, non solo preoccuparsi di garantire modi di acquisto tardivo.
L'illecito permanente della p.a. che occupa sine titulo un suolo di un privato potrebbe, dunque, cessare solo con l'adozione di un provvedimento di acquisizione sanante, con un accordo transattivo tra privato e p.a espropriante, con la restituzione del suolo oppure attraverso l'acquisto mediante usucapione, ammesso da una parte della giurisprudenza amministrativa o, attraverso una rinuncia abdicativa del diritto di proprietà in favore della p.a.
Una parte della giurisprudenza infatti in un'ottica estensiva dei modi di acquisto della proprietà da parte della p.a. dà valore giuridico al contegno processuale del privato, riconoscendo alla domanda di risarcimento per equivalente valore di rinuncia implicita al diritto di proprietà in favore della P.A.
Si è precisato però che giammai una rinuncia può avere effetto traslativo, se non nei casi già previsti dalla legge, si pensi all'abbandono del fondo servente ex art. 1070, considerata la tassatività dei modi di acquisto dei diritti reali e la regola di trascrizione degli stessi atti di acquisto. Dunque, la rinunzia non può avere effetto abdicativo della proprietà, né tantomeno traslativo.
Quanto all'usucapione la giurisprudenza è divisa.
Da un lato coloro che ritengono il possesso della P.A. occupante utile ad usucapire in quanto pacifico e non interrotto. Si sostiene che l'interversio possessionis che muta la detenzione in possesso avviene, nel caso delle occupaizoni di fatto, quando la p.a. esegue i lavori sul fondo o utilizza l'opera, trattandosi, per questa tesi, di atti di opposizione al proprietario ex art. 1141 comma 2 c.c. secondo i fautori della tesi favorevole, inoltre, la giurisdizione spetterebbe sempre al g.o. trattandosi di diritto soggettivo connesso ad un comportamento materiale della P.A. (possesso come mero fatto).
Di diverso avviso quanti, in un'ottica opposta di garanzia del privato, tendono a restringere i modi di acquisto della proprietà ai soli casi previsti dalla legge, seppur nella forma patologica dell'acquisizione sanante. Secondo questa impostazione già l'acquisizione sanante rappresenterebbe un vulnus al principio di legalità, pertanto andrebbe esclusa natura acquisitiva sia al mero possesso ventennale, sia a forme di contegno processuale.
Quanto alla tutela del privato che subisce una occupazione illegittima possiamo innanzitutto dire che lo stesso può sollecitare la p.a. all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante per non vedersi esposto sine die ad una situazione di incertezza e, soprattutto, di illegalità.
È stato precisato che seppur trattasi di attività comparativa di interessi, come sottolinea l'art. 42 bis, la P.A. ove sollecitata dal privato deve rispondere per ripristinare la situazione di fatto alla situazione di diritto, alterata dall'occupazione sine titulo. Infatti, la perdurante occupazione materiale del suolo impedisce al dominus (ancora tale fino ad eventuale provvedimento sanante) di godere pienamente ed esclusivamente del suolo, pertanto la p.a. è tenuta al ripristino della legalità o restituendo il suolo e predisponendo il risarcimento per il periodo di illegittima occupazione; oppure adottando il provvedimento acquisitivo sanante con indennizzo e risarcimento per il periodo di occupazione sine titulo. Ne deriva che il silenzio della p.a. sia inquadrabile tra le ipotesi si silenzio-inadempimento in l'obbligo di provvedere nasce dai doveri di buona amministrazione e giustizia sostanziale, con possibilità per il privato di attivare il rito avverso il silenzio ex art. 31 c. 3 cp.a.
Ci si è chiesti in giurisprudenza, altresì, se il g.a. possa condannare la p.a. all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante ex art.42 bis.
Sul punto il Consiglio di Stato sembra propendere per la tesi negativa, considerata la natura discrezionale del provvedimento. La P.A. deve compiere quella ponderazione comparativa degli interessi pubblici e privati coinvolti e giungere alla scelta che ritiene opportuna, senza che questa sfera possa essere invasa dal g.a. , per la riserva del potere amministrativo di cui agli artt. 2, 4, 6 LAC. Pertanto, considerato che l'azione di esatto adempimento è ristretta alle sole ipotesi di cui all'art. 31 c. 3 c.p.a., cioè di attività vincolata o per i quali sono consumati poteri discrezionali, si sostiene che il g.a sia tenuto a salvaguardare il potere di scelta della p.a. tra la restituzione dell'immobile o l'acquisizione sanante, non potendosi pronunciare su poteri non ancora esercitati secondo il dettato dell'art.34 c. 4 c.p.a.
In conclusione è opportuno fare qualche cenno ai poteri del giudice dell'ottemperanza in ordine alla possibilità di adottare il provvedimento di acquisizione sanante in sede di esecuzione.
Laddove il privato a fronte della perdurante inerzia post giudicato della P.A. si rivolga al giudice dell'ottemperanza per l'esecuzione della sentenza inottemperata, ci si è chiesto se il giudice possa adottare manu propria o attraverso il commissario ad acta il provvedimento sanante.
Coloro che fanno leva sulla necessaria corrispondenza tra la sentenza eseguenda e il giudizio di ottemperanza, sostengono che laddove il giudice della cognizione non si sia pronunciato in ordine all'adozione del provvedimento de quo, il giudice dell'ottemperanza non potrà pronunciarsi oltre i limiti della sentenza, correlata alla domanda originariamente posta dal privato che ambiva alla restituzione del bene.
Altri invece, facendo leva sulla natura cognitivo-esecutiva del giudizio di ottemperanza, che ricordiamo essere un giudizio di merito, ammettono l'adozione del provvedimento sanante sia da parte del giudice dell'ottemperanza che può disporre anche il risarcimento anche ove richiesto per la prima volta in tal sede, sia da parte del commissario ad acta longa manus del giudice. In questo modo si garantisce un ampliamento delle tutele per il privato il quale ove non soddisfatto a seguito del giudizio di cognizione a fronte della perdurante inerzia della P.A. che continua a mantenere il possesso del suolo, potrà rivolgersi al giudice dell'ottemperanza.
È sempre fatto salvo, però, secondo una parte della giurisprudenza, il potere della P.A. di intervenire in pendenza di giudizio con l'adozione dell'acquisizione sanante ove ritenuto opportuno alla luce dell'assetto di interessi esistente. In tal modo l'esecuzione della sentenza di cognizione sarà giuridicamente impossibile, essendo venuto meno l'oggetto del contendere e il provvedimento di acquisizione potrebbe essere censurato solo in un nuovo giudizio di legittimità ai fini dell'annullamento.
Secondo una diversa impostazione, laddove sia adottato un provvedimento tardivo sanante successivamente ad un giudicato restitutorio, questo sarà nullo per violazione ed elusione di giudicato ai sensi dell'art. 21 septies l.p.a.
In sintesi il privato gode di una tutela reale, potendo chiedere la restituzione del suolo e il ripristino della situazione quo ante; una tutela cautelare neutralizzando la perdurante occupazione illegittima attraverso provvedimenti cautelativi; una tutela risarcitoria per l'illecito permanente con prescrizione quinquennale il cui dies a quo coinciderebbe, secondo la migliore giurisprudenza, con la data di cessazione della permanenza coincidente con la restituzione, l'acquisizione sanante o, per coloro che lo ammettono, con l'avvenuto usucapione ventennale.
Dall'analisi fatta emerge un quadro assai frammentario dei mezzi di tutela, considerato anche il silenzio normativo, colmato dalle continue pronunce della giurisprudenza amministrativa tesa a contemperare le due esigenze opposte: tutela della proprietà privata e soddisfacimento del pubblico interesse. Anche in punto di giurisdizione ci sono alcune zone d'ombra.
Abbiamo in precedenza affermato che la giurisdizione è esclusiva del g.a. quando si tratta di provvedimenti, atti e comportamenti riconducibili anche in via mediata o immediata al potere ablativo- espropriativo della P.A.
L'art. 133 lett. g) c.p.a. richiama il dictat della Consulta sia nella sentenza 204/2004 che 191/2006, laddove prevede che la giurisdizione sia correlata comunque alla spendita del potere autoritativo e pubblicistico, a prescindere dal modulo provvedimentale, consensuale o comportamentale scelto.
Per tali motivi profili problematici sorgono in tema di occupazioni, laddove trattasi di comportamenti materiali della p.a.
Nulla quaestio in caso di provvedimenti, dichiarazione di pubblica utilità e decreto di esproprio, adottati ma annullati. In tal caso siamo in presenza di una procedura espropriativa strictu sensu intesa, dunque seppur illegittimi i provvedimenti sono manifestazione del potere autoritativo, pertanto la giurisdizione esclusiva è giustificata sia nell'occupazione acquisitiva che in quella usurpativa spuria (da dichiarazione annullata).
Nel caso delle occupazioni usurpative pure in cui manchi ab origine la dichiarazione si pongono dubbi per l'assenza di una manifestazione del potere autoritativo all'esterno. Secondo la suprema corte di cassazione in queste ipotesi siamo fuori dalla procedura espropriativa, mancando la connessione con il potere autoritativo data dalla dichiarazione stessa. Equiparata alla totale assenza sarebbe anche l'inefficacia o la nullità. Per tali ipotesi ricorrerebbe la figura della carenza di potere in concreto, perché i presupposti legali per l'esercizio del potere ci sono, i vincoli espropriativi a monte nella programmazione, ma sono violati. Dunque, seguendo l'impostazione della tradizionale giurisprudenza di legittimità, la carenza di potere in concreto rientrerebbe tra le ipotesi di giurisdizione ordinaria, perché l'assenza del provvedimento autoritativo non ha affievolito il diritto soggettivo di partenza conoscibile e tutelabile dal g.o.
Di diverso avviso il Consiglio di Stato il quale è tradizionalmente fermo nel riprodurre la carenza in concreto, cd.cattivo uso del potere, alla giurisdizione amministrativa. Infatti sarebbe errato considerare in maniera differente l'occupazione acquisitiva e l'occupazione usurpativa, considerata l'equiparazione del legislatore prima nell'art. 43 poi nel 42 bis. Inoltre l'apposizione del vincolo espropriativo farebbe sorgere già a monte la procedura finalizzata all'esproprio, con conseguente applicazione dell'art.133 lett. g).
Ne deriva che al più un comportamento materiale non riconducibile nemmeno in via mediata al potere amministrativo, sarà ravvisabile solo in quelle condotte precedenti all'apposizione del vincolo attraverso strumenti di pianificazione territoriale, come nel caso di un'occupazione materiale di un fondo altrui per il quale non sono state nemmeno manifestate esigenze di localizzazione. In questi casi, peraltro rari, sarebbe ravvisabile, secondo l'ordinario criterio di riparto, la giurisdizione ordinaria.
Avv. Annalisa Imparato, cellulare 334.8706234
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Foro di Torre Annunziata
Sezioni Unite Civili 13.01.2015Corte Costituzionale 71/2015