Dott.ssa Trotta Francesca
Il danno alla sfera non patrimoniale della persona ha da sempre rappresentato questione di grande interesse in dottrina e in giurisprudenza, non tanto perché viene considerato danno minore rispetto a quello patrimoniale ma in quanto è considerato danno difficile.
La tematica del risarcimento del danno non patrimoniale e la sua parametrazione giuridica hanno da sempre costituito oggetto di aspre querelle giurisprudenziali e dottrinali in merito alla scarna codificazione. Ciò ha dato adito ad un copioso intervento pretorio volto a chiarirne la portata e i limiti, ma sebbene tale tentativo di aggiustamento oggi si registrano profonde oscillazioni.
Il codice del 1865 non presentava una norma che corrispondesse all'attuale art. 2059, cosicché l'effettiva previsione si ebbe grazie all'avvento del codice del 1942 il quale prevedeva la responsabilità del danno non patrimoniale solo nei casi previsti dalla legge.
Il principio della irrisarcibilità fuori dai casi previsti dalla legge è figlio di una ristretta concezione del danno, laddove inizialmente si provvedeva solo alla risarcibilità dei danni economici in quanto si assistette ad un lento progredire del diritto volto a concentrare la propria attenzione su interessi patrimoniali ed economici (pure economic losses). Tramite il riferimento alla legge penale in virtù del richiamo codicistico all'art 185 c.p. si diede un iniziale contributo all'estensione del risarcimento in virtù del fatto che la norma penale tutela valori sociali di rilevanza pubblica la cui violazione esige a favore della vittima una completa riparazione del danno sia patrimoniale che non.
Quanto detto comportò l'estensione di tale figura anche al risarcimento del turbamento emotivo o di ogni offesa a beni non patrimoniali che però non si riducessero a meri disturbi o a semplici fastidi, dovendosi trattare invece di turbamenti effettivi.
Ciò permise un'estensione ai parametri costituzionali di cui all'art 2 e 32 cost. (garantendo una lettura costituzionalmente orientata dell'art 2059 c.c. ) guardando in particolar modo a danni morali soggettivi da intendersi come l'effetto di sofferenza psichica o patema d'animo connesso alla lesione di diritti sempre più personali dell'individuo.
Il concetto di danno non patrimoniale cominciava ad assumere consistenza venendo inteso come danno-conseguenza, risarcibile tutte le volte in cui la lesione del bene morale comportasse danno effettivo. Cosicché a seguito delle varie prospettazioni in relazione alla portata effettiva dell'art. 2059 c.c. si succedettero varie sentenze della Corte Costituzionale volte a ridimensionare il consistente intervento pretorio, estendendo il risarcimento del danno non patrimoniale all'espresso richiamo normativo di cui all'art 185 c.p. in termini di danno morale.
L'intervento della corte determino un travaso dei pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti fondamentali, compreso il pregiudizio alla salute, nell'art 2043 c.c.
Così facendo emerse una nuova categoria di danno volto ad affiancarsi al danno patrimoniale classico e al danno morale. Nel caso di illecito aquiliano lesivo della salute risultavano configurabili tre distinte fattispecie: il danno alla salute : da intendersi come danno-evento uguale per tutti e risarcibile ex se a seconda della dimostrazione dell'illecito, il danno strictu sensu patrimoniale: variabile a seconda della dimostrazione della perdita o meno della capacità lavorativa e il danno morale puro: risarcibile solo nelle ipotesi previste dalla legge.
Quanto detto determinò un effettivo ribaltamento dell'art. 2059 c.c. lasciando a tale norma solo i danni morali puri facendo confluire le residuali ipotesi nell'art. 2043 c.c. spogliando nuovamente il primo. Questa prospettazione sembrò apparentemente valida ,fin quando non cominciò a rivestire considerevole importanza la figura del danno esistenziale o prima ancora di questo danni diversi da quello alla salute, lesivi di ulteriori diritti costituzionali, quali: la riservatezza, l'onore, ovvero ogni qualsivoglia diritto inerente alla personalità. La questione così prospettata allontanava tale ipotesi sia dal danno morale limitato al" transuente turbamento" ,sia dal danno biologico inteso come sofferenza psicofisica dipesa da lesione nella logica del danno alla salute.
Il danno esistenziale si sostanziava nel peggioramento della qualità della vita provocato dalla forzata rinuncia ad una attività non remunerativa fonte di benessere per il danneggiato, ovvero nella somma di ripercussioni relazionali di degno negativo tali da capovolgere o modificare in pius l'esistenza del danneggiato. La questione così prospettata si pone oltre il danno biologico, in quanto il danno esistenziale ha ad oggetto una lesione diversa rispetto al danno alla salute e oltre quello del danno morale. Nel danno esistenziale si registra una considerevole alterazione delle abitudini di vita del danneggiato attinenti al fare "areddituale" del soggetto.
Quanto detto risultò prima facie avere confini incerti, in quanto i sostenitori della tesi estensiva dell'art.2043c.c. vedevano in tal danno un pregiudizio economico pur se correlato ai diritti fondamentali di cui all'art.2043 c.c.. Il danno esistenziale veniva a monte inteso come pregiudizio economico mentre a valle species del più ambio genus del danno biologico considerando la lesione dei diritti alla persona.
In senso opposto si fece strada la tesi conseguenzialistica volta a focalizzare l'attenzione non tanto sull'in se della lesione ma sul danno, rinnovando l'apertura agli altri diritti fondamentali.
Nel danno esistenziale sarebbero confluite tutte le lesioni derivanti sia dal torto aquiliano che dall'inadempimento contrattuale , dando ingresso ad una figura ampia di danno non più ingabbiata dalle sbarre dell'art.2043 c.c. nonché dalla vecchia concezione limitativa dell'art.2059c.c.
Il percorso rinnovatore fu inaugurato dalle illuministiche sentenze gemelle della Cassazione del 2003 (n.8827 e 8828) le quali superarono l'antico disegno pretorio volto a restringere l'area dell'asrt.2059c.c..
La Cassazione nelle sentenze suddette ha incluso nell'aere dell'art.2059c.c. il danno biologico e il danno esistenziale, facendo in modo che ogni lesione di valori costituzionali inerenti la persona andassero ad integrare il danno de quo. Il danno risarcibile alla luce della nuova prospettiva si identifica nelle conseguenze negative ,sul piano economico ed esistenziale, derivanti dalla lesione le quali dovranno essere allegate e provate dalla parte che invoca la tutela ai sensi dell'art.2697c.c. ciò ancor di più garantita in merito al riferimento di cui all'art.185c.p.. La questione del danno esistenziale venne esaminata ulteriormente dalla nota sentenza San Martino del 2008 la quale tentò di risolvere ulteriori problemi. Venne precisato altresì come il danno esistenziale non venisse inteso come sottocategoria, vista l'insuscettibilità a suddivisioni dell'art. 2059c.c., essendo lo stesso categoria generale.
Fu al danno biologico che poté riconoscersi portata onnicomprensiva come si legge dal codice delle assicurazioni private(dlgs.209/2005) , in cui il danno esistenziale viene inglobato in quello biologico quale sua componente soggettiva e variabile. L'art.138 del suddetto decreto intende il danno esistenziale come la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona esplicante una vicenda negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato, indipendentemente dalla valutazione del reddito. Come più volte precisato le sorti dell'art. 2059 c.c. dipesero da una interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso, evitando di invocare una tutela risarcitoria per diritti tendenzialmente immaginari. A tal fine si reputò necessario un doppio filtro quale quello dell'ingiustizia del danno e quello della tipicità dello stesso, dovendo dunque la gravità dell'offesa e la serietà della stessa atteggiarsi a paravento di pregiudizi bagatellari ( attività verificativa demandata all'interprete).
L'ampiezza così acquisita dall'articolo in commento permise il confluirsi di pregiudizi dipendenti anche dal danno contrattuale. Il lavoro interpretativo della giurisprudenza pretoria permise di estendere il danno non patrimoniale non solo a pregiudizi derivanti dalla responsabilità per violazione del neminen laedere ,ma anche da inadempimento. Il risarcimento di tale forma di danno si realizza ogniqualvolta venga violato non solo un diritto costituzionalmente garantito, ma anche qualora a venir meno fosse un diritto di protezione di cui all'art.1174c.c.. Si pensi al danno derivante dal c.d. contratto di package (pacchetto turistico tutto compreso), recentemente oggetto di varie sentenze, in cui sia la dottrina che la giurisprudenza ne fanno derivare il danno da vacanza rovinata. Tale danno è inteso come pregiudizio di natura consistente nel disagio, nello stress e nell'afflizione subita dal turista per non aver potuto godere dei benefici relativi alla vacanza programmata tout court. Tant'è che a seguito dell'inadempimento del tuor operetors bisogna tener presente, al fine di collocare il risarcimento del danno ,che l'interesse del contraente alla vacanza rappresenta la causa effettiva del contratto, rappresentando la finalità turistica invece lo scopo, l'interesse che il contratto è diretto a soddisfare come previsto dallo stesso art.47 del codice del turismo.
Una giusta tutela risarcitoria, richiede che il risarcimento debba garantire l'equo ristoro in favore del soggetto danneggiato. Si è discusso sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in termini di risarcimento in forma specifica o per equivalente ai sensi dell'art.2058c.c.. Prima facie si optò per la irrisarcibilità del danno nei modi suddetti laddove si riteneva complicata la ricostruzione dello status quo ante.
Nel corso del tempo invece, si è provveduto ad un cambio di rotta interpretando le chiare lettere dell'articolo e non rinvenendo quindi ragioni ostative all'ammissibilità del risarcimento, visto il generico riferimento al "danno" in quanto tale. A conferma del cambiamento la soluzione apparve verosimilmente prospettata dall'art.186 c.p., laddove prevede la pubblicazione della sentenza di condanna alla stregua di una pena ulteriore in termini di risarcimento in forma specifica. Definiti i confini del risarcimento è opportuno guardare alla definizione dell'onus probandi. Presupposto essenziale risulta essere la prova e l'allegazione del danno de quo, il danneggiato infatti dovrà indicare le circostanze che hanno comportato il cambiamento in peius della qualità della vita, indicandone le attività compromesse.
Al fine di provare il danno nel caso in specie risulta essere ammissibile la prova presuntiva avente pari rango rispetto alla prova documentale e testimoniale. Risulta che qualora il danno derivasse da contratto non sarà richiesta la prova in termini soggettivi (dipendente da dolo o colpa), ma al danneggiato sarà unicamente richiesto di provare l'esistenza dell'obbligazione allegandone l'inadempimento.
Il ricorso a presunzioni semplici previa allegazione delle compromissioni subite, appare strumento idoneo all'individuazione del pregiudizio non patrimoniale anche nelle ipotesi in cui il giudice abbia difficoltà a ricorrere ad una indagine certa in termini medico-legali. La prova presuntiva opportunamente ed adeguatamente analizzata dall'interprete potrebbe discendere anche da fatti noti, purché gli indizi risultino essere chiari, precisi e concordanti, dovendo poi il danneggiante provare che il fatto addebitatogli dipenda da eventi da lui non prevedibili ad onta della normale diligenza. L'evoluzione del danno non patrimoniale e la sua rivisitazione in termini costituzionalmente orientati ha determinato una forte apertura all'ammissibilità delle tipologie di danno. Tra queste un interessante posizione è assunta dai danni riflessi o c.d. danni da rimbalzo. In tali tipologie di danno la persona rappresenta il fulcro dal quale discendono legami ai sensi dell'art.2 e 32 cost. , in quanto il processo relativo alla lesione può interessare de relato i soggetti legati affettivamente alla vittima effettiva. L'onnicomprensività del danno non patrimoniale ha dato la stura ad un processo di affermazione di un ulteriore tipologia di danno c.d. tanatologico o da morte. Tale danno investe il risarcimento non solo relazionandolo a quanto subito direttamente dalla vittima, ma anche alle relazioni e agli effetti volti a riversarsi sui soggetti emotivamente convolti o sui quali si riversano conseguenze negative, per il venire meno in termini economici di fonti di sostentamento.
Il danno tanatologico è una danno che presenta aspetti complicati in termini di estinzione in quanto il danno da morte trova la sua causa nel decesso di un soggetto dovuto ad un altrui fatto illecito volto a ripercuotersi sui familiari. Questi ultimi potranno agire tanto iure proprio, in virtù del trauma subito dalla perdita del congiunto per il venire meno del rapporto parentale, quanto in termini iure hereditatis, rilevando in tal caso i danni subiti dalla vittima in dipendenza diretta del fatto illecito commesso nei sui confronti. Ai fini dell'ammissibilità del risarcimento è determinante l'acquisizione di un "credito al ristoro", il quale per detta ragione, entra nel patrimonio del danneggiato trasferendosi de iure agli eredi. Sotto la voce di danno tanatologico sono state sussunte le due figure del danno biologico terminale e del danno morale terminale meglio noto come danno c.d. catastrofale. Il danno biologico terminale consiste nella sofferenza patita dalla vittima nel caso in cui tra la lesione della salute e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo ,nulla ostando alla risarcibilità iure hereditario.
Quanto al danno morale terminale ( c.d. catastrofale) si intende il danno psichico subito dalla vittima dopo il decorso di un intervallo di tempo anche molto breve tra la lesione e la morte, allorché sia accertata una sofferenza di intensità tale da vedersi configurato nella posizione della vittima un danno consistente nella lucida percezione della morte. In entrambe le ipotesi la giurisprudenza prevalente riconosce la possibilità di ristoro in termini iure proprio. Quanto all'ipotesi di danno biologico terminale bisogna precisare che se ne ammette la risarcibilità nei confronti del danneggiato , volta a determinare la trasmissibilità di tale diritto agli eredi, solo nel caso in cui tra le lesioni subite dalla vittima e la sua morte intercorre un apprezzabile lasso temporale. Nel caso in cui il soggetto rimane vittima di un incidente volto a determinare un pregiudizio alle condizioni di salute, il danno biologico terminale si inserisce nella logica di appagamento del grave pregiudizio subito in ragione dell'apprezzabile lasso di tempo intercorrente tra la lesione e la morte, idoneo alla percezione del pretium doloris da parte della vittima.
Ciò determina così l'ingresso del danno nel patrimonio della vittima, risarcibile iure successionis. Qualora invece tra la lesione e il decesso non intercorre un apprezzabile lasso di tempo idoneo a determinare una percezione in termini di sofferenza, non potrà ricorrersi al risarcimento del danno catastrofale. È importante precisare che il lasso di tempo intercorrente tra la lesione e il danno è necessario a determinare una calcificazione del diritto, in modo tale da poter essere trasmesso agli eredi. La privazione della vita è intesa in termini di capacità giuridica e il soggetto la cui vita è tutelata dall'ordinamento , deve considerarsi capace in senso giuridico in ordine all'acquisto del diritto risarcitorio. Da ciò discende che qualora il soggetto perdesse la vita senza l'effettivo trasferimento di tale diritto di credito non potrebbe dirsi acquisito e quindi intrasmissibile come più volte precisato agli eredi iure successionis. Il risarcimento del danno da morte è stato recentemente al centro di una aspra querelle giurisprudenziale a fronte di un copioso intervento pretorio, volto a negarne la risarcibilità iure successionis. Per le ragioni suddette, ovverossia per il mancato ingresso del diritto di credito nel patrimonio del soggetto, ogni qualvolta il lasso di tempo volto a precedere la morte fosse verosimilmente inidoneo, non se ne ammetteva l'acquisto dello stesso e quindi il risarcimento.
Nel 2014 con la sent.n.1361 la sez .III della Cassazione si è pronunciata in maniera dissonante rispetto alla maggioritaria giurisprudenza assistendosi così ad un effettivo cambio di rotta . La cassazione ha provveduto ad accordare il risarcimento del danno da morte puro , criticando l'indirizzo precedente in quanto in contrasto con i principi costituzionali . La pronuncia de quo ha valorizzato il diritto alla vita in se, considerando la perdita stessa di tale diritto come il momento idoneo all'acquisizione del credito al risarcimento, vista la vulnerazione del bene tutelato. La perdita del" bene-vita" prevede un risarcimento ex se nella sua oggettività a prescindere dalla consapevolezza del danneggiato e quindi anche in caso di morte immediata, decidendone così la risarcibilità iure successionis. Il problema, apparentemente risolto in termini di risarcimento, rimaneva ancorato alle modalità di risarcimento del danno in relazione alla liquidazione dello stesso. Prima facie si fece ricorso alle tabelle milanesi. Il ricorso al sistema tabellare però venne criticato in quanto giudicato verosimilmente limitativo, laddove non venisse ricompreso il danno da perdita della vita in sé. La lacuna suddetta ha spinto la giurisprudenza a ricorrere ad un diverso sistema di quantificazione, ricorrendo al criterio equitativo puro. La liquidazione dovrà essere idonea a consentire una personalizzazione del danno non dovendo presentarsi in maniera simbolica o irrisoria, comprendendo tutte le voci e gli aspetti dello stesso (considerando l'età della vittima, le condizioni di salute e le relazioni familiari del soggetto). L'apprezzabile cambiamento di rotta operato dalle sentenza rivoluzionaria del 2014 è stato recentemente rimesso in discussione, determinando una nuova inversione di marcia.
Le Sezioni Unite del 22 luglio 2015 sent. n. 15350 sono state interrogate circa la risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti dal fatto illecito. La Suprema Corte ha mostrato di aderire ai precedenti orientamenti volti a negare il risarcimento nei termini suddetti, evidenziando che se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del soggetto leso solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita.
La Corte ha sostenuto altresì che affinché una perdita possa rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto nella cui sfera giuridica maturi il credito risarcitorio insussistente nell'ipotesi di morte immediata. Nonostante la negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi per la perdita della vita seguita immediatamente alle lesioni subite, sia stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale dalla sentenza del 2014, le recenti SS.UU. hanno optato per la soluzione opposta. Le stesse si sono mostrate ferme nell'osservare come la morte non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene salute, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata.
Una perdita per rappresentare un danno risarcibile è necessario che sia rapportata ad un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio. Nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo un brevissimo lasso di tempo dalle lesioni subite, l'irrisarcibilità deriva appunto dall'assenza di un soggetto legittimato a far valere tale diritto di credito. In conclusione quello che appare necessario al fine di ammettere il risarcimento nelle ipotesi finora prospettate, è la verifica di una effettiva perdita rapportabile al soggetto offeso, mancante nel caso in specie in quanto l'anticipazione del momento di nascita del credito alla lesione subita porrebbe nel nulla la distinzione tra il bene salute e il bene vita sul quale concordano dottrina e giurisprudenza prevalente.
Dott.ssa Trotta Francesca - laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli studi Federico Secondo di Napoli, specializzata in Professioni Legali presso la stessa università. Email: trottaf@live.it