Tirata d'orecchie dalla Cassazione ai giudici di merito che avevano ritenuto invalida la revoca del consenso poiché proveniente dal legale della parte

di Lucia Izzo - La revoca del consenso al trattamento dei dati personali può essere espressa dall'interessato con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un legale di fiducia. 


Questo il principio di diritto enunciato dalla I sezione civile della Corte di Cassazione nella sentenza n. 17399 del 2015 (qui in allegato), originato dal ricorso proposto da una ex dipendente di una struttura sanitaria, la quale aveva richiesto la rimozione del propri dati personali dal sito internet della società attraverso una diffida inviata dal proprio difensore a mezzo raccomandata


Non avendo la società ottemperato alla richiesta, la donna ricorre al Tribunale di Milano che rigetta la domanda attorea ritenendo non sussistente l'elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio (il trattamento illecito dei propri dati personali) ossia il perdurante trattamento dei dati in presenza di una revoca del consenso da parte dell'interessato. 

Per il giudice meneghino, la revoca è da considerarsi invalida poiché proveniente dal legale della parte, mentre avrebbe dovuto rivestire uguale forma dell'atto con il quale è stato inizialmente espresso il consenso. 


I giudici di legittimità sono di tutt'altro avviso, poiché non solo non è stato precisata la ipotetica forma del consenso iniziale che giustificherebbe l'inidoneità della diffida inviata tramite legale, ma anche perché le modalità con cui il consenso può essere revocato possono essere varie e anche diverse da quelle concretamente utilizzante per la manifestazione del possesso


L'importante è che vengano espresse senza formalità le volontà dell'interessato, come si desume dal d.lgs. n. 196 del 2003 il cui art. 23 (citato nella sentenza impugnata) si limita a prevedere che il consenso (che deve essere riferito "ad un trattamento chiaramente individuato") debba essere "espresso", cioè provenire dall'interessato in modo esplicito, anche se non necessariamente in forma scritta, ma solo "documentato per iscritto" (terzo comma), mentre è solo il consenso al trattamento di dati sensibili che deve essere "manifestato in forma scritta" (quarto comma). 


A ciò si aggiunge anche l'art. 8 del summenzionato decreto legislativo, che ai fini della revoca del consenso stabilisce che i diritti di accesso ai dati, anche per ottenerne l'aggiornamento, la rettificazione, l'integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima e il blocco dei dati, sono esercitati con richiesta "senza formalità" al titolare o al responsabile "anche per il tramite di un incaricato" o con l'assistenza di una persona di fiducia quale è certamente il legale. 


Gli Ermellini si sono, in aggiunta, pronunciati circa la richiesta della donna relativa al risarcimento dei danni non patrimoniali cagionati dalla condotta illecita della società convenuta: anche questa domanda era stata rigettata dai giudici di prime cure, in quanto non provato il nesso causale tra la condotta e la sindrome depressiva lamentata dalla ricorrente.

La certificazione medica prodotta in giudizio veniva qualificata inidonea sia poiché non proveniente da una struttura pubblica, sia perché il medico certificante si era limitato a riportare quanto riferitogli dall'interessata. 


Ma gli argomenti sono inadeguati: la circostanza che la certificazione medica provenga da una struttura non pubblica non la rende evidentemente di per sé intrinsecamente inidonea e, in aggiunta, la ricorrente aveva espressamente richiesto l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio medico-legale proprio per avvalorare l'attendibilità del certificato medico prodotto e l'esistenza dei danni personali riconducibili all'illecito.  


L'aver negato la CTU è un comportamento immotivato, soprattutto in quanto, per costante giurisprudenza, il giudice, pur potendo discrezionalmente decidere se ricorrere o meno a questo strumento probatorio, deve motivare in maniera adeguata il rigetto dell'istanza proveniente da una delle parti, dimostrando di poter poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare (v. Cass. n. 72/2011, n. 88/2004, n. 10/2002, n. 15136/2000)

Pertanto la sentenza impugnata va cassata con rinvio. 

Cass., I sez. civile, sent. 17399/2015

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