di Valeria Zeppilli - Con la sentenza n. 36669/2015 depositata ieri (qui sotto allegata), la Corte di Cassazione ha sancito la legittimità della condanna per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in capo al coniuge che sia venuto meno all'obbligo di assistenza deciso in sede di separazione riconducendo tale inadempienza al suo licenziamento, in realtà ad essa sopravvenuto.
Nel caso di specie il ricorrente aveva mancato al suo dovere di corrispondere più volte l'importo di euro 300 mensili dovuti all'ex moglie, anche per il mantenimento della figlia, quando ancora esercitava l'attività di carpentiere e, per mera omissione ingiustificata, aveva costretto la donna a ricorrere al sostegno economico dei propri genitori.
I tentativi dell'uomo di esimersi dalla condanna sono risultati vani e dinanzi alle dichiarazioni e alla documentazione acquisite al processo, a nulla gli è valso provare a giustificare l'omesso versamento in ragione del licenziamento e della sua sottoposizione alla detenzione domiciliare, trattandosi di fatti successivi a quelli oggetto di contestazione.
L'uomo, inoltre, non ha in nessun modo diversamente documentato di trovarsi nell'assoluta impossibilità di far fronte all'obbligo di contribuzione e non è riuscito a salvarsi dalla condanna.
La sentenza assume una certa rilevanza anche perché con essa la Corte ha colto l'occasione per precisare che i motivi costituenti mera replica di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito non possono ritenersi specifici ma risultano solo apparenti, con la conseguenza di dover essere ritenuti inammissibili, e che è oltretutto inammissibile il ricorso che si limiti a lamentare l'omessa valutazione da parte del giudice di appello delle censure articolate nel gravame ricorrendo genericamente ad esse senza indicarne il contenuto, in ragione della necessaria autosufficienza del ricorso in cassazione.
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