di Lucia Izzo - È legittimo il licenziamento del dipendente che pubblica sul suo profilo Facebook fotografie scattate durante l'orario di lavoro, accompagnate da commenti offensivi.
Le immagini, seppur non pubblicate sul sito dell'azienda e prive del nome della società, sono inserite nella pagina pubblica del lavoratore e risultano accessibili a chiunque e soprattutto alla cerchia delle sue conoscenze, persone perfettamente in grado di sapere che l'espressione di discredito era riferita all'azienda presso cui l'uomo è dipendente.
Lo ha precisato il Tribunale di Milano, sezione lavoro, in una recente ordinanza (qui sotto allegata), che ha rigettato il ricorso promosso da un dipendente ai sensi dell'art. 1, co. 47 ss., della legge n. 92/2012 (Riforma Fornero) contro l'azienda che lo aveva licenziato.
Il datore di lavoro aveva contestato al dipendente il comportamento di particolare gravità da lui assunto, in violazione dell'obbligo di effettuare la propria prestazione lavorativa con diligenza: l'uomo, aveva pubblicato sul suo profilo Facebook, in giorno e orario lavorativo (durante una pausa), foto che lo ritraevano insieme a due colleghi, in posa non di lavoro, accompagnate da una didascalia offensiva ("ditta di m…").
Gli veniva perciò intimato il licenziamento per giusta causa ai sensi del contratto collettivo di settore, poiché tali comportamenti, oltre a presentare una valenza negativa nei confronti di colleghi e terzi, sono tali da pregiudicare la società e la sua immagine.
Il ricorrente contestava la legittimità del provvedimento datoriale per violazione delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 legge n. 300/1970, insussistenza del fatto oggetto di contestazione, insussistenza dei presupposti della giusta causa di licenziamento e, in ogni caso, per carenza di proporzionalità tra addebito e sanzione espulsiva.
Le doglianze attoree sono però da ritenersi infondate.
Le frasi offensive rappresentano a tutti gli effetti un'ingiuria idonea, per le modalità con le quali è stata manifestata, a determinare una lesione dell'immagine aziendale, senza neppure che vi fosse alcuna vicenda o particolare ragione di tensione che avrebbe potuto giustificare una simile reazione del dipendente o attenuare la gravita dell'episodio.
Non vale a salvare il dipendente il richiamo alla riforma Fornero e al collegato lavoro.
La riforma in esame contempla, tra le ipotesi per le quali può trovare applicazione la reintegrazione (ex art. 18, co. 4, Legge 300/1970) il caso in cui il licenziamento sia stato intimato per un fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
Il limite in esame, tuttavia, opera solo avuto riguardo delle condotte per le quali i contratti collettivi e i codici disciplinari contemplano una sanzione conservativa, non una sanzione espulsiva.
Per contro, in assenza di un'espressa previsione legislativa, non possono ritenersi vincolanti le tipizzazioni delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo.
L'art. 30, co. 3, legge 183/2010 impone al giudice di "tener conto" dei casi di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi, così come degli elementi e dei parametri fissati da tali contratti, ma fa salva la possibilità per lo stesso di ritenere sussistente la giusta causa di licenziamento a fronte di una condotta non espressamente contemplata dagli accordi sindacali.
Nel caso in esame, la contrattazione collettiva di settore prevede il lavoratore sia licenziato, con immediata rescissione del rapporto di lavoro, in tutti i casi in cui "commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi alla azienda grave nocumento morale o materiale".
Non si può dubitare che i comportamenti di cui è causa rientrino in siffatte ipotesi.
Rigettato il ricorso, l'ordinanza è immediatamente esecutiva e il ricorrente è condannato alla rifusione delle spese di lite oltre accessori.
Tribunale di Milano, sezione lavoro, 1 agosto 2015