di Simona Metrangolo - L'ordinamento di diritto privato è caratterizzato dalla centralità riservata alla persona (sia fisica sia giuridica) e alle sue interazioni coi terzi.
In virtù di ciò, all'interno del codice civile, ma anche in leggi extra codicem, il legislatore ha formalizzato norme volte a riconoscerle l'adeguata autonomia e rilevanza (si pensi all'art. 1322, co. II, c.c., in tema di ammissibilità di contratti atipici), nonché a somministrarle la giusta tutela nell'ipotesi di perpetrazione di un vulnus alla sua sfera giuridica.
Il ventaglio di lesioni che la persona può subire è, invero, assai vario, potendo assumere carattere non patrimoniale e patrimoniale ed essendo rimediabili attraverso l'esercizio dell'azione risarcitoria da parte del danneggiato o del creditore a seconda del contesto extra o contrattuale di inferenza.
Il risarcimento, tuttavia, opera - se accolta, in sede giudiziaria, la relativa domanda - a lesione avvenuta, "risentendo" di quell'intento compensativo/riparatorio che caratterizza il sistema civile delle responsabilità.
Questo non significa, però, che al soggetto non sia dato ricorrere, prima della verificazione del danno, a strumenti che lo tutelino dal suo accadimento e che - più correttamente - sollecitino il danneggiante/debitore all'esatta resa della prestazione dovuta.
Con specifico riguardo ai rapporti obbligatori, il legislatore, per garantire il creditore circa il futuro adempimento di controparte debitrice, ha infatti predisposto un vero e proprio microcosmo di norme, allocato - non a caso - all'interno del Libro VI del codice civile, dedicato alla tutela dei diritti.
La sua norma di apertura è l'articolo 2740 c.c., rubricata come "responsabilità patrimoniale". Per ragioni di accuratezza descrittiva, alla locuzione sarebbe, poi, opportuno aggiungere l'aggettivo generica, che ben configura il "capiente" oggetto sul quale la norma produce i suoi effetti.
La fattispecie, infatti, al primo comma, evidenzia come il debitore risponda dell'adempimento delle obbligazioni contratte con tutti i suoi beni, presenti e futuri. Limitazioni a tale forma estensiva di responsabilità non sono ammesse, salvo i casi in cui sia la stessa legge a prevederle.
Il riferimento è, tra gli altri, alle cosiddette forme di segregazione patrimoniale riconosciute, esplicitamente o non, dal codice: si pensi al fondo patrimoniale, ai patrimoni destinati o al trust interno, ove considerato ammissibile.
Grazie a queste, cioè - se ne ricorrano i presupposti applicativi -, il debitore suddivide in uno o più cespiti il proprio patrimonio, così separando le masse finanziarie e rendendole aggredibili soltanto dai creditori della singola massa, i quali pertanto non potranno soddisfare le proprie pretese sugli altri cespiti.
Le ipotesi di segregazione patrimoniale rappresentano tuttavia una realtà eccezionale, straordinaria.
Al di fuori di essa vi è, allora, il problema di coniugare il contestuale concorso di più creditori sull'unico patrimonio del debitore; problema che, invero, può porsi anche nell'eventualità in cui più creditori debbano soddisfarsi sull'unico cespite non separato.
Il codice si è fatto carico della questione all'interno dell'art. 2741, co. I, c.c., in cui sancisce il principio della par condicio creditorum (ciascun creditore ha, cioè, "uguale diritto di essere soddisfatto sui beni del debitore"), a meno che non operino cause legittime di prelazione, ossia titoli il cui possesso conferisce, in capo ad un determinato creditore, il diritto di essere preferito ad altri nella fase di escussione dei beni dell'esecutato. Il creditore che non sia munito di detti titoli si definirà chirografario.
Al secondo comma della medesima fattispecie il codice individua, poi, le singole cause di prelazione: privilegio, pegno ed ipoteca.
Va precisato, inoltre, che il legislatore non ha ravvisato nei titoli prelazionari l'unico mezzo con cui il creditore può garantirsi.
Strumenti animati dal medesimo fine sono, invero, quelli di cui agli articoli 2900 - 2906 c.c., qualificati come mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali.
Per il loro tramite, cioè, il creditore può, ad esempio, esercitare verso i terzi i diritti e le azioni che spettino al proprio debitore, ma che questi non coltivi (c.d. azione surrogatoria, art. 2900 c.c.).
Egli può altresì agire in giudizio per far dichiarare l'inefficacia di un atto dispositivo, compiuto dal debitore, che gli arrechi nocumento, sussistendone gli ulteriori requisiti richiesti ex lege (c.d. azione revocatoria, artt. 2901 - 2904 c.c.) e può, infine, chiedere al giudice il sequestro conservativo dei beni del debitore (artt. 2905 e 2906 c.c.), se abbia timore di perdere, nelle more della procedura esecutiva, le garanzie connesse al proprio credito.
La differenza tra titoli prelazionari e mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, che insieme compongono il microcosmo di tutela cui si faceva dianzi cenno, risiede nell'essere, i primi, fonti attributive di un diritto al beneficiario e nel costituire, al contrario, i secondi, azioni o misure cautelari esercitabili dai soggetti a ciò legittimati.
Con un ulteriore sforzo esplicativo, potrebbe dirsi che le cause legittime di prelazione conferiscono, al titolare, il diritto di espropriare un bene del patrimonio del debitore, così stabilendo un vero e proprio vincolo reale su di esso.
I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale mirano, invece, alla tutela del credito dal punto di vista "soggettivo", trattandosi di azioni personali che il legittimato esercita sulla scorta della ricorrenza dei presupposti di legge.
E' evidente, dunque, che il microsistema creato dal legislatore risponde anche a peculiari esigenze di identificazione, riordino ed organizzazione degli strumenti fruibili dal privato che richieda, per sé, tutela.
Si vuol dire, cioè, che il civis dovrà necessariamente attingere al tassativo elenco di norme confezionato nel codice per ricavare i mezzi atti a contrastare la futura perpetrazione di vulnus.
L'esigenza di tassatività avvertita dal legislatore emerge con forza con riguardo ai titoli prelazionari, due dei quali infatti (il pegno e l'ipoteca) sono annoverati, come implicitamente accennato, tra i diritti reali sub specie di garanzia.
Dai diritti reali "ordinari", quelli di garanzia mutuano tutte le principali caratteristiche: inerenza o immanenza del diritto al bene cui accede, ambulatorietà - e cioè permanenza del diritto nella res anche laddove su quest'ultima si avvicendino più titolari -, assolutezza od opponibilità erga omnes del costituito vincolo reale (peculiarità, invero, soddisfatta dall'adempimento degli oneri trascrittivi: artt. 1350 e 2643 ss. c.c.) e tassatività.
Tale ultimo requisito, in particolare, ha un contenuto più generico e, al contempo, più restrittivo rispetto agli altri. Più generico in quanto si riferisce all'intero novero dei diritti reali; più restrittivo poiché pone limiti interni ed esterni a detto novero.
Tassativo è, cioè, l'elenco che il codice ha predisposto con riguardo alle tipologie di diritti reali esistenti nel nostro ordinamento, nonché il contenuto, normativamente regolamentato, di ciascuno di essi.
Una prima più ampia (e, dunque, generica) distinzione riguarda proprio i diritti reali c.d. in senso stretto ed i diritti reali di garanzia.
All'interno di ciascuna categoria è, poi, possibile individuare le singole "entità" che la compongono, rispettivamente: proprietà, superficie, enfiteusi, servitù, usufrutto, uso ed abitazione e - i già citati - pegno ed ipoteca.
Ad esser più precisi, non esiste una fattispecie globalmente ricognitiva dei singoli diritti reali, ma esistono più fattispecie, previste ad hoc dal legislatore, che informano l'intero Libro III del codice civile, non a caso dedicato al diritto reale "per antonomasia": la proprietà.
Alla luce, dunque, delle puntuali individuazioni effettuate dal legislatore, ai privati prima e all'interprete dopo - in sede di vaglio dell'ammissibilità del negozio eventualmente stipulato tra i cives - è impedito di costituire diritti reali che non siano ricompresi nel ristretto, e dunque tipico, elenco stilato.
Tassatività e tipicità si atteggiano, allora, a sinonimi, o meglio a risvolti di una medesima medaglia.
Da un lato, il legislatore individua puntualmente il diritto; dall'altro, ne tipizza il contenuto e, in tal modo, segna il confine oltre il quale l'autonomia dei privati non può spingersi: la creazione, cioè, di diritti reali atipici, laddove per atipico deve intendersi il diritto reale non ricompreso in quel novero oppure ivi riconducibile, ma avente caratteristiche diverse da quelle che "ordinariamente" gli competono.
A titolo esemplificativo, può pensarsi alla proprietà. Oltre ai requisiti già menzionati (inerenza, diritto di sequela, eccetera), essa si distingue per il suo essere imprescrittibile (salvi gli effetti dell'usucapione) e, dunque, cronologicamente perpetua. Non sarebbe, pertanto, ammissibile una proprietà circoscritta nel tempo e/o a godimento turnario (la c.d. proprietà temporanea).
Una tale, rigida, impostazione non ha incontrato il favore di tutti in dottrina.
Qualcuno, infatti, guardando al dato normativo, ha obiettato che così come non esiste, nel nostro ordinamento, una fattispecie che "collazioni" ogni ipotesi di diritto reale - essendo piuttosto rimesso all'interprete detto compito -, parimenti non esiste una disposizione espressa che imponga ai privati di non costituire diritti reali atipici.
Gli autori che condividono questa tesi scomodano, per darsi manforte, l'art. 1322, co. II, c.c. che consente ai privati di predisporre operazioni negoziali non conformi ai tipi contrattuali previsti dal codice, purché perseguano interessi meritevoli di tutela e rimettendone, eventualmente, il vaglio all'autorità giudiziaria.
Infatti, la visione soggetto-centrica del codice del 1942 e l'intento di far circolare, attraverso le trattative private, ricchezza all'interno dello Stato non giustificano il contenimento delle operazioni negoziali in rigidi schemi; ciò che vanificherebbe la ratio sottesa all'intero ordinamento civile.
Di talché, si è iniziato a declinare i diritti reali secondo paradigmi diversi da quelli ordinari, discorrendo di proprietà temporanea (ne sarebbe un esempio la multiproprietà alberghiera), proprietà risolubile (si pensi alla vendita con patto di riscatto), se non addirittura, abbandonando il campo della proprietà, di servitù irregolari, con riguardo - in particolare - ai parcheggi, pertinenza di un immobile.
Tuttavia, se quest'innovativa tesi ha riscosso un certo successo in dottrina, non lo stesso può dirsi in giurisprudenza, la quale ancora non riconosce i diritti reali atipici.
Recentemente, però, una timida apertura verso l'atipicità l'ha mostrata la Suprema Corte con riguardo ai diritti reali di garanzia.
Il riferimento, nello specifico, è al pegno, nelle varianti del pegno irregolare, rotativo ed omnibus. Prima di valutarne l'ammissibilità, è tuttavia necessario tracciare un breve e generale quadro dell'istituto.
Gli artt. 2784 e ss. c.c. disegnano le coordinate normative del titolo prelazionario in questione.
Il pegno è un contratto reale, predisposto per volontà del debitore o di un terzo, ed avente ad oggetto beni mobili, universalità di mobili, crediti e altri diritti inerenti a beni mobili (così l'art. 2784 c.c.).
In quanto contratto reale, si perfeziona con la consegna della res al creditore (art. 2785 c.c.), il solo a poterne disporre fintantoché il debitore non abbia adempiuto la propria prestazione.
Le parti del contratto possono invero designare se stesse o un terzo per la custodia di ciò che è oggetto di pegno; nel primo caso, tuttavia, per la fruizione della res, sarà necessario il consenso del debitore e la sua cooperazione.
Va precisato che, in caso di inadempimento di chi costituisce il pegno, il bene non passerà in proprietà del creditore (vi osta il disposto imperativo dell'art. 2744 c.c.), bensì quest'ultimo potrà soddisfarsi, con preferenza rispetto agli altri (art. 2787 c.c.), sul ricavato della vendita del bene all'incanto.
L'oggetto del contratto di pegno dev'essere possibile, lecito, determinato o determinabile.
L'impossibilità, materiale o giuridica, e/o la sua illiceità provocherebbero, infatti, la nullità del predisposto regolamento di interessi, così come la provocherebbero la genericità ed astrattezza dell'oggetto: trovano, dunque, applicazione le norme in materia di contratto (nello specifico, artt. 1418 e 1346 c.c.).
Tuttavia, l'ammissibilità di un contratto di pegno con oggetto generico si è profilata proprio con riguardo al citato pegno omnibus, disciplinato da leggi speciali (le norme bancarie uniformi) ed inserito spesso, quale clausola, all'interno dei contratti tra privati e banche.
Nel caso, ad esempio, della concessione di un mutuo nei confronti del cliente (ma lo stesso potrebbe dirsi con riguardo a qualsivoglia contratto bancario: si pensi all'apertura di un conto corrente), quest'ultimo può costituire, a garanzia della restituzione del c.d. tantundem e degli interessi pattuiti, un pegno.
L'anomalia rispetto al contratto di pegno ordinario risiede nel fatto che il diritto di espropriazione di cui beneficia l'istituto di credito non è circoscritto alla res materialmente gravata dalla causa di prelazione.
La banca, infatti, all'interno della clausola contrattuale che configura il pegno, potrà stabilire di estendere l'oggetto della garanzia a tutti i beni (titoli e/o valori) in disponibilità del cliente.
Non solo: il perimetro operativo del pegno potrà abbracciare anche i beni di cui in futuro quest'ultimo disporrà; la garanzia omnibus è, dunque, una garanzia valevole per tutti i beni del debitore (omnibus: per tutti).
I dubbi posti dal pegno omnibus hanno riguardato la genericità del suo oggetto e, di riflesso, la validità negoziale dell'operazione tout court.
Dal momento che il pegno omnibus, come già precisato, è previsto dalle Norme bancarie uniformi, quali leggi speciali ai sensi dell'art. 2785 c.c., la sua regolamentazione può invero sfuggire a quella delle norme - base del codice civile (artt. 2784 e ss.). Non può, tuttavia, essere carente di quei requisiti che connotano la fisiologia dei contratti, pena la predisposizione di un negozio che tale non può essere considerato.
La giurisprudenza, allora, per evitare che il pegno omnibus venisse espunto dal nostro ordinamento, l'ha considerato ammissibile nei limiti in cui la clausola del contratto bancario che lo prevede contenga una indicazione sì generica, ma comunque idonea ad individuare, "fisicamente", i beni che costituiranno oggetto del vincolo, a prescindere dalla loro testuale disamina.
Laddove la clausola che appone il pegno omnibus non rispetti questo tracciato, non sarà qualificata come invalida, comportando quale conseguenza la nullità parziale del contratto cui accede, ma sarà solo inopponibile ai terzi (e dunque operativa inter partes).
Alla luce di quanto dianzi esposto, il pegno omnibus è una ipotesi di pegno che si discosta da quelle ordinarie, colorando il suo contenuto di caratteristiche evidentemente diverse.
Le anomalie riscontrate, che ben lo attraggono nel novero delle garanzie reali atipiche, si spiegano con l'esigenza di favorire le trattative commerciali attraverso la fruizione di strumenti diversi da quelli usuali, che non congelino le ricchezze e, al contempo, assicurino al creditore il soddisfacimento del proprio interesse negoziale.
Considerazioni non dissimili devono svolgersi anche con riguardo al c.d. pegno rotativo.
Nel contratto con cui si costituisce quest'ulteriore ipotesi di garanzia reale atipica, le parti stabiliscono la eventuale sostituzione della res gravata dal vincolo con un'altra di pari valore.
Ciò non comporterà, tuttavia, la novazione dell'originario rapporto contrattuale, conformandosi invece alle esigenze, in concreto avvertite dalle parti, di liberare il bene originariamente dato in pegno.
Anche il pegno irregolare può essere considerato una garanzia reale atipica.
Esso ha ad oggetto denaro, beni o altre utilità fungibili con la conseguenza che oggetto di espropriazione non sarà la res sulla quale ricade materialmente il vincolo, bensì il valore della medesima.
Un esempio potrà chiarire il concetto, ed aiuterà a distinguere meglio il pegno irregolare da quello rotativo. Qualora il debitore costituisca un pegno su una data somma di denaro, il vincolo non graverà sulla somma in quanto entità tangibile e specificamente identificabile. Graverà, invero, sul quantum pattuito, essendo il solo tantundem oggetto di vincolo ed essendo dunque il creditore legittimato ad espropriare una quantità ad esso conforme.
Tutto ciò premesso, appare evidente che l'esigenza avvertita dagli interpreti sia in dottrina che in giurisprudenza è quella, ormai, di svincolarsi dai rigidi schemi imposti dal dato positivo, preferendo soluzioni più morbide. Che non mortifichino, cioè, la ratio degli istituti di volta in volta presi in considerazione e che, al tempo stesso, non vanifichino gli interessi che i privati sottendono al regolamento negoziale.
Ciò ha comportato, come visto, la sovversione di taluni dogmi (quello della tipicità dei diritti e delle garanzie reali, in primis) a vantaggio di un approccio più sensibile per il "soggetto", che è poi il dominus della normativa e casistica di diritto civile.
La peculiare attenzione rivolta alla persona si è, dunque, tradotta nell'ammodernamento degli strumenti legislativi in dotazione al civis.
Ammodernamento che ha investito anche - e soprattutto - il versante contrattuale/obbligatorio (non solo, dunque, quello contrattuale/reale) grazie, ad esempio, alla configurazione, per restare in tema di garanzie, stavolta personali, di talune ipotesi di fideiussione distanti dal modello tipico disciplinato dal dato positivo (si pensi alle fideiussioni omnibus o, anche, al contratto autonomo di garanzia).
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