di Marina Crisafi - Non è sufficiente il carattere "dispotico e mortificante" della moglie per addebitarle la colpa del fallimento del matrimonio. Così ha deciso la Cassazione, con l'ordinanza n. 19194/2015 depositata ieri (qui sotto allegata), intervenendo in un giudizio di separazione, in cui entrambi gli ex coniugi chiedevano affermarsi la responsabilità della rottura della coppia all'altro.
Dopo la sentenza del tribunale, in primo grado, che aveva respinto le domande di addebito e posto a carico del marito un assegno di mantenimento di 500 euro al mese a favore della moglie, lui aveva proposto appello ribadendo che la separazione era addebitabile alla moglie (dato il dispotismo e le mortificazioni ricevute) e contestando l'esistenza di una sperequazione economica e reddituale tale giustificare il diritto a un assegno di mantenimento, chiedendone contestualmente la riduzione. Lei, d'altro canto, si costituiva proponendo appello incidentale per sentir dichiarare l'addebito a carico del marito e per ottenere l'elevazione dell'ammontare dell'assegno a 1.500 euro mensili.
La Corte territoriale dava "picche" ad entrambi e l'uomo ricorreva perciò in Cassazione.
Ma i giudici di piazza Cavour sul fronte dell'addebito della separazione la pensano allo stesso modo e confermano che né alla moglie, né al marito era attribuibile la responsabilità per la crisi della coppia, ormai non più in discussione.
Non tutto è perso però per l'uomo che ottiene una mezza vittoria sul fronte del quantum dell'assegno disposto a favore della donna: egli infatti ha formato una nuova famiglia, cui si è aggiunta la nascita di un figlio. Una circostanza che, a detta dei giudici della sesta sezione civile, non può essere ignorata, in quanto "ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento, il giudice deve valutare le potenzialità reddituali di entrambe le parti e, pertanto, tenere conto degli oneri e delle ulteriori responsabilità dell'obbligato, in conseguenza della nascita di un figlio da una successiva unione".
Per cui sentenza cassata e parola al giudice del rinvio.
Cassazione, ordinanza n. 19194/2015