di Valeria Zeppilli - Lavorare per il partner non vuol dire necessariamente lavorare gratuitamente.
Con la sentenza n. 19304/2015 depositata il 29 settembre (qui sotto allegata), la Corte di Cassazione ha affermato chiaramente che la relazione affettiva con il proprio "datore di lavoro" non è un motivo idoneo a far presumere che la prestazione lavorativa sia svolta a titolo gratuito.
A tal fine, infatti, è necessaria la rigorosa dimostrazione che la finalità che la giustifica sia di carattere solidaristico e non lucrativo, derivante da una comunanza di vita e di interessi tra le parti.
Nel caso di specie, il ricorso era stato proposto da una donna che, avendo amministrato per ben sei anni il patrimonio del partner e della madre di questi, richiedeva che, per il periodo di riferimento, fosse accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Il giudice del merito lo aveva negato, nonostante nel corso del giudizio fosse stato rilevato che gli apporti lavorativi della ricorrente nei confronti dell'attività dell'uomo erano stati di natura consistente e che il rapporto meramente affettivo tra i due non era mai sfociato in una effettiva e costante convivenza sotto un medesimo tetto.
Peraltro, la ricorrente non aveva mai partecipato agli utili della gestione del patrimonio immobiliare né incrementato, in relazione ad essa, il proprio patrimonio o la propria posizione economica.
In difetto di una dimostrazione circa la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, errato è stato, quindi, il ragionamento che ha portato la Corte d'Appello ad accertare come sussistente tra le parti un rapporto diverso da quello lavorativo, istituito affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzato dalla gratuità della prestazione.
Corte di cassazione testo sentenza numero 19304/2015