di Valeria Zeppilli - Tra le novità di maggiore rilievo introdotte dal Jobs Act, un ruolo particolare è di certo rivestito dal cd. contratto a tutele crescenti, la cui disciplina contiene le nuove tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo 2015.
- Cos'è il contratto a tutele crescenti
- Ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti
- Licenziamento discriminatorio, nullo o orale
- Licenziamento per giustificato motivo e per giusta causa
- La revoca del licenziamento
- Contratto a tutele crescenti nelle piccole imprese
- Tutele crescenti: calcolo delle frazioni di anno e di mese
- Licenziamento collettivo
- L'abolizione del rito Fornero e l'offerta di conciliazione
Cos'è il contratto a tutele crescenti
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Nonostante il nome possa trarre in inganno, il contratto a tutele crescenti non è tecnicamente una nuova tipologia contrattuale, ma una nuova regolamentazione del comune contratto a tempo indeterminato focalizzata, in particolare, sugli aspetti relativi al recesso datoriale illegittimo.
Esso trova la sua regolamentazione nel decreto legislativo attuativo numero 23 del 4 marzo 2015.
Ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti
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La nuova disciplina del contratto a tutele crescenti (dove per tutele si intendono, appunto, quelle relative ai licenziamenti illegittimi) riguarda innanzitutto i lavoratori, ad esclusione dei dirigenti, che, come accennato, siano stati assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015.
Oltre che le neoassunzioni, la nuova normativa dei licenziamenti riguarda anche le trasformazioni di rapporti a tempo determinato o di apprendistato in rapporti a tempo indeterminato avvenute a partire da tale data e i lavoratori già assunti da quelle imprese che abbiano superato il limite dimensionale di 15 dipendenti in conseguenza delle assunzioni effettuate a partire dal 7 marzo 2015.
Essa, invece, non interessa i lavoratori a tempo indeterminato già impiegati, per i quali continua ad applicarsi la vecchia tutela dai licenziamenti illegittimi, prevista dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
In conclusione, quindi, può dirsi che oggi la normativa in materia di tutele rispetto ai licenziamenti illegittimi si configura come un doppio binario in cui per alcuni lavoratori restano efficaci ed operative le disposizioni in materia di recesso datoriale previste nello Statuto dei lavoratori (come riformato nel 2012) e nella legge n. 604/1966, mentre per altri trovano applicazione le nuove tutele.
Ma cosa prevede nel dettaglio la normativa sul contratto a tutele crescenti? La risposta varia a seconda del motivo dell'illegittimità del licenziamento.
Licenziamento discriminatorio, nullo o orale
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Qualora il licenziamento intimato dal datore di lavoro sia nullo perché discriminatorio o in quanto derivante dagli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge o nel caso in cui esso sia intimato in forma orale, il datore di lavoro ha l'obbligo di reintegrare il dipendente. Se però il lavoratore non riprende servizio entro trenta giorni dall'invito formulatogli dal datore di lavoro, il rapporto si intende risolto.
Unitamente alla reintegra, il datore di lavoro è tenuto anche a risarcire il lavoratore per il danno subito a seguito del licenziamento, corrispondendogli un'indennità per il periodo che va dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra, dedotto quanto eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, in misura in ogni caso non inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. e con versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In alternativa alla reintegra, ma fermo restando il risarcimento del danno, il lavoratore può chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R., non assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta, però, deve essere formulata entro trenta giorni dalla pronuncia con la quale è accertata l'illegittimità del licenziamento o dall'invito a riprendere servizio se precedente.
Licenziamento per giustificato motivo e per giusta causa
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Con riferimento ai casi in cui il licenziamento risulti illegittimo in quanto non ricorrono gli estremi né della giusta causa né del giustificato motivo oggettivo o soggettivo, in via generale non è prevista la reintegra ma il rapporto di lavoro è considerato estinto alla data del licenziamento e il datore di lavoro è condannato a pagare al lavoratore un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. per ogni anno di servizio, comunque compresa tra le sei e le trentasei mensilità (prima dell'intervento del decreto dignità, la forbice entro la quale poteva essere ricompresa l'indennità andava da quattro a ventiquattro mensilità).
La sentenza della Corte costituzionale
Con la sentenza n.194/2018, in ogni caso, il calcolo dell'indennità risarcitoria secondo modalità crescenti esclusivamente in ragione dell'anzianità di servizio è stato dichiarato incostituzionale, non permettendo al giudice di valutare le singole ipotesi tenendo conto delle specificità del caso concreto.
Di fatto, quindi, la determinazione dell'indennità è tornata a dipendere in maniera di nuovo forte dalla discrezionalità del giudice, che dovrà in ogni caso restare entro i suddetti limiti minimo e massimo.
Fatto insussistente
In un caso specifico, la reintegra è prevista anche per le ipotesi di illegittimità del licenziamento per assenza dei presupposti della giusta causa e del giustificato motivo: si tratta dei casi in cui il fatto contestato al lavoratore e alla base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo sia insussistente.
In tale ipotesi il datore di lavoro è tenuto anche al pagamento in favore del lavoratore di un'indennità risarcitoria, commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R., corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, dedotto in questo caso non solo quanto il lavoratore abbia eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, ma anche quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso l'indennità non può mai essere superiore a dodici mensilità e comporta comunque il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Anche in questo caso il lavoratore può optare per l'indennità sostitutiva della reintegra.
Si precisa che non trova applicazione l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, introdotta dalla Legge Fornero per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati da datori di lavoro con più di 15 dipendenti.
Difetto di motivazione o vizi procedurali
La disciplina posta in generale per i licenziamenti illegittimi in quanto non sorretti né da giusta causa né da giustificato motivo, trova un'ulteriore eccezione nei casi, residuali rispetto ai precedenti, in cui l'illegittimità derivi da un difetto di motivazione o da vizi procedurali.
In tale ipotesi non è comunque prevista la reintegra e il rapporto di lavoro si intende estinto alla data del licenziamento, ma l'indennità erogata, anche in questo caso non assoggettata a contribuzione, è pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. per ogni anno di servizio e comunque compresa tra due e dodici mensilità.
Si noti che è proprio dal fatto che le varie indennità previste variano nella loro misura in ragione della durata della permanenza in azienda del lavoratore che deriva la denominazione di contratto a tutele crescenti.
La revoca del licenziamento
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Il decreto 23 stabilisce, poi, che nel caso in cui il licenziamento sia revocato dal datore di lavoro entro quindici giorni da quando riceve la comunicazione della relativa impugnazione, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità.
Il lavoratore, in tal caso, ha anche diritto alla retribuzione maturata nel periodo antecedente la revoca e i regimi sanzionatori non trovano ovviamente applicazione.
Contratto a tutele crescenti nelle piccole imprese
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Un aspetto di particolare interesse della normativa sul contratto a tutele crescenti è che il campo di applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti conseguente al Jobs Act non è limitato solo alle imprese con più di quindici dipendenti.
Le disposizioni di cui al d.lgs. n. 23/2015, infatti, si applicano anche alle piccole imprese e alle organizzazioni di tendenza.
Bisogna però dare conto del fatto che, mentre per queste ultime non c'è alcuna particolare eccezione al regime generale, per le piccole imprese non trova applicazione la peculiare disciplina prevista in caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto alla base della giusta causa o del giustificato motivo e l'ammontare delle indennità è dimezzato e non può in ogni caso superare le sei mensilità.
Tutele crescenti: calcolo delle frazioni di anno e di mese
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Per quanto riguarda il calcolo delle tutele, va detto che per le frazioni di anno l'anzianità di servizio è riproporzionata e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.
È poi interessante porre in evidenza che, per espressa previsione legislativa, in caso di appalto l'anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell'eventuale impresa subentrante è computata tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell'attività appaltata.
Contratto a tutele crescenti: licenziamento collettivo
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Il decreto 23 non dimentica di fare cenno anche ai licenziamenti collettivi, prevedendo innanzitutto che nel caso in cui essi siano stati intimati senza l'osservanza della forma scritta il regime di tutela applicabile è il medesimo previsto per i licenziamenti individuali discriminatori, nulli o intimati in forma orale.
Nell'ipotesi in cui vengano invece violati le procedure o i criteri di scelta, il regime è quello previsto in via generale nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa.
L'abolizione del rito Fornero e l'offerta di conciliazione
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In ultimo, meritano di essere poste in rilievo due ulteriori interessanti innovazioni introdotte dalla disciplina del contratto a tutele crescenti.
Innanzitutto, per i licenziamenti intimati sotto la vigenza del nuovo regime non si applica il cd. rito Fornero e vengono meno tutti i dubbi e le critiche che esso aveva sollevato.
In secondo luogo è stata introdotta una nuova ulteriore ipotesi di risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, in particolare, è oggi prevista la possibilità per il datore di lavoro di offrire al lavoratore, mediante assegno circolare ed entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. per ogni anno di servizio, comunque compresa tra due e diciotto mensilità e esente da Irpef e da contribuzione previdenziale.
Gli eventuali importi aggiuntivi pattuiti tra le parti sono comunque assoggettati al regime fiscale ordinario.
Se il lavoratore accetta l'offerta, il rapporto si estingue alla data del recesso e l'impugnazione del licenziamento, anche eventualmente già proposta, si intende rinunciata.