di Marina Crisafi - È legittimo il licenziamento del lavoratore che, durante una discussione, ingiuria e minaccia il proprio capo. Se il giudice di merito riconosce la "giusta causa" valutando le deposizioni dei testimoni con motivazione ritenuta corretta, la Cassazione non può sindacare. Lo ha ricordato la sezione lavoro della Suprema Corte con la recente sentenza n. 20071/2015, depositata il 7 ottobre scorso (qui sotto allegata) avallando la pronuncia della Corte d'Appello di Torino impugnata da un operaio, addetto al reparto verniciature di un'azienda, licenziato dopo una dura discussione verbale avuta col proprio superiore gerarchico.
La Corte d'appello accoglieva il reclamo proposto dalla società datrice e dichiarava legittimo il licenziamento intimato considerando provati i fatti addebitati al lavoratore, "consistenti in atti di insubordinazione nei confronti del superiore gerarchico concretizzatisi nell'avergli rivolto espressioni ingiuriose e minacciose in occasione di una discussione avuta per motivi di lavoro" con la quale il lavoratore rappresentava irregolarità nelle relative operazioni da parte di altro dipendente addetto al medesimo reparto.
A incastrare l'uomo erano le dichiarazioni dei testi escussi presenti all'episodio, ivi compreso lo stesso superiore gerarchico, considerate attendibili al contrario delle dichiarazioni scritte di altri dipendenti, acquisite nel corso del giudizio, non presenti al diverbio contestato.
Sulla base delle prove emerse e dando atto anche, con motivazione, del contrasto delle deposizioni e della ritenuta maggiore attendibilità, la Corte ha considerato che la gravità del comportamento del lavoratore e in particolare il suo comportamento intimidatorio verso il superiore, con le offese e le minacce poste in essere, fossero elementi integranti la giusta causa di licenziamento.
Per il Palazzaccio, la motivazione è logica e congrua e pertanto insindacabile in sede di legittimità.
Va ricordato infatti ha concluso la S.C., che "in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice d'appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, come nella fattispecie, si sottraggono al riesame in sede di legittimità".
Per cui nulla da eccepire sulla decisione della corte territoriale e licenziamento confermato.
Cassazione, sentenza n. 20071/2015