Il delitto ex art. 377 c.p. alla luce della recente giurisprudenza della Cassazione

di Giuseppina Vitiello - Il delitto di intralcio alla giustizia (già subornazione) di cui all'art. 377 c.p., punisce chiunque offre o promette denaro o altra utilità a taluno dei soggetti indicati nella norma, con lo specifico fine di indurlo a commettere i reati previsti dagli artt. 371 bis, 371 ter, 372 e 373 c.p., sancendone già la penale rilevanza anche in mancanza dell'accettazione dell'offerta o della promessa.

Questo determinante aspetto della fattispecie de quo ci consente di comprendere immediatamente come il legislatore abbia inteso tutelare al meglio il bene giuridico oggetto della condotta incriminata, ovvero la fedeltà delle informazioni rese al p.m., o all'autorità giudiziaria in genere ed al difensore, e lo fa attraverso quel classico arretramento della soglia di punibilità che ne descrive la natura conseguentemente di pericolo astratto del reato o, secondo altra dottrina, di mera condotta.

Ciò significa che il giudice nell'accertamento che sarà chiamato a compiere in merito, non dovrà verificare ai fini della punibilità del reo la necessaria sussistenza in concreto di una esposizione a pericolo del bene tutelato.

In altri termini siamo di fronte a quei reati nei quali il legislatore, sulla base di leggi di esperienza, ha presunto che una classe di comportamenti è, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per uno o più beni giuridici: il pericolo è dunque la ratio dell'incriminazione, ma non è elemento del fatto tipico di reato; pertanto la sua sussistenza nel caso concreto non deve essere accertata dal giudice.

Ciò che il giudice deve accertare è soltanto il verificarsi di quel comportamento che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso.

Nondimeno, dalla rilevanza del bene giuridico posto a fondamento del delitto ex art. 377 c.p., possiamo dedurre che la condotta oggettivata incarna al meglio una delle rare ipotesi di deroga alla penale irrilevanza dell'istigazione di cui all'art. 115 c.p.

Si tratta chiaramente di un reato comune che tuttavia si presenta "specializzato" e se vogliamo, come in seguito si mostrerà, anche "specializzante" dato che i destinatari della proposta subornatrice devono trovarsi necessariamente in una delle qualifiche alternativamente enucleate nel comma 1 dell'art. cit.

A tal proposito sia l'opera dottrinaria che pretoria, giungendo a soluzioni non univoche, si sono interrogate se sia ugualmente punibile la condotta subornatrice anche quando la determinata qualifica richiesta dalla norma non sia stata ancora formalmente assunta.

In particolare si era discusso in relazione alla condotta tenuta da un c.t.u. non ancora citato per essere sentito sulle stime oggetto della proprio perizia.

Ebbene, a fronte di un primo orientamento contrario, basato proprio sull'assenza della formale assunzione della qualità di testimone, seguì una tesi che ricostruiva comunque in termini di intralcio alla giustizia la condotta del c.t.u. non ancora citato, ancorchè nominato, ritenendo che la qualità testimoniale richiesta dalla norma fosse in realtà immanente nel soggetto nominato dal p.m. ovvero dal giudice e rappresentasse la conseguenza logica, sul piano processuale, della funzione assegnatagli.

Altro elemento peculiare è quello soggettivo che si sostanzia nella volontà di dare o promettere denaro o altra utilità ai soggetti menzionati, allo specifico fine di indurli a commettere i reati espressamente previsti nella norma; tale ultima direzione peculiare del dolo (id est dolo specifico), non è necessario che si realizzi, attenendo allo scopo ulteriore tenuto di mira dal reo e come tale non rientrante nei requisiti minimi atti ad integrare la fattispecie di reato.

Inoltre la proposta subornatrice potrà anche non essere accettata, distinguendo la norma (solo in punto di quantum sanzionatorio) l'ipotesi di accettazione della stessa dalla mancata accettazione.

Proprio tale ultima declinazione della condotta incriminata si è manifestata spesso sovrapponibile anche alla diversa ipotesi delittuosa di cui all'art. 322 c.p., disciplinante l'istigazione alla corruzione.

Si tratta di una disposizione oggetto di revisioni legislative anche recenti, gemmate dalla forza dirompente che la l. 190/2012 ha espresso su molte delle fattispecie di delitti contro la P.A. ed in particolare dei delitti di concussione (spacchettato nel nuovo art. 317 c.p. ed art. 319 quater c.p.), delle varie ipotesi di corruzione e non ultima dell'istigazione alla corruzione di cui all'art. 322 c.p.

Tale ultima norma, posta a tutela di una pluralità di beni giuridici quali l'imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione ed il suo regolare funzionamento, analizza la condotta di due tipi di soggetti attivi diversi ovvero del privato (commi 1 e 2) e del pubblico agente (commi 3 e 4), nella duplice forma della istigazione alla corruzione propria (commi 1 e 3) ed istigazione alla corruzione impropria (commi 2 e 4); tale distinzione si sviluppa naturalmente anche sul piano dell'elemento soggettivo richiedendo nel primo caso (commi 1 e 3) il semplice dolo generico, e nel secondo (commi 2 e 4) il dolo specifico.

Anche in tale complessa disposizione, così come visto in relazione all'art. 377 c.p., il legislatore ha voluto punire la semplice istigazione qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, con ciò ravvisandosi una certa similitudine rispetto all'istigazione a commettere falsità nella testimonianza, perizia o interpretazione, e nelle false informazioni al p.m. o al difensore, di cui all'art. 377 c.p.

Tuttavia la succitata norma si pone, rispetto alla prima, in termini di specialità laddove pur prevedendo la punizione di chiunque offra o prometta denaro o altra utilità a soggetti dotati di specifiche qualifiche, richiede sui soggetti destinatari della proposta subornatrice la sussistenza della qualità di testimone o comunque del generale dovere di rispondere secondo verità.

Ed infatti l'art. 501 c.p.p. richiede per l'esame dei periti e dei consulenti tecnici, l'osservanza delle disposizioni previste per l'esame dei testimoni e dunque richiama l'art. 198 c.p.p. che dispone l'obbligo del testimone di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte.

Orbene l'apparente linearità della norma va sfumandosi in tutte quelle situazioni per così dire limite, in cui non solo come detto precedentemente, si dubitava della stessa formale assunzione della veste testimoniale (id est c.t.u. nominato ancorchè non citato per essere sentito sulle proprie deduzioni tecniche), ma soprattutto in quelle ipotesi in cui l'oggetto delle deduzioni stesse dava adito a forti dubbi in punto di ammissibilità di una valutazione in termini di verità-falsità.

Si pensi ad esempio a tutti quei casi in cui il p.m. chieda al perito o al consulente tecnico delle delucidazioni non solo e non tanto sull'esatto svolgimento dei fatti, e dunque dichiarazioni di natura descrittiva, come tali perfettamente scrutinabili in punto di verità-falsità, quanto di formulare giudizi di tipo valutativo e dunque di stampo prettamente tecnico-scientifici, che mal si prestano a quell'accertamento in termini di verità-falsità che fonda tutte le ipotesi di reato richiamate dall'art. 377 c.p.

Naturalmente è impossibile dettare delle regole assolute ed aprioristicamente applicabili, dal momento che la norma de quo si atteggia diversamente a seconda del momento in cui le false dichiarazioni vengono rese (in sede di indagini ex art. 371 bis c.p., in sede di esame ex art. 372 c.p.), ovvero investano le dichiarazioni del consulente (artt. 371 bis, 371 ter e 372 c.p.) o quelle del perito e dell'interprete (art. 373 c.p.), fattispecie assai distinte, stante anche il disposto di cui all'art. 359 c.p.p.

Ebbene, la giurisprudenza più recente sostiene che anche laddove l'oggetto della consulenza tecnica dovesse sostanziarsi in giudizi tecnico-scientifici e dunque di tipo valutativo, solo ove a fondare tali valutazioni vi siano criteri predeterminati e chiaramente individuabili, sarà possibile attivare quel meccanismo di accertamento in punto di verità-falsità che rappresenta il perno dell'art. 377 c.p.

E' quanto in sostanza espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione, con una sentenza (Cass., Sez. un., ud. 25.09.14 - dep. 12.12.2014 - n. 51824, Pres. De Roberto, Rel. Rotundo) che funge da guida per gli operatori del diritto ai fine dell'accertamento di condotte prima facie assai simili tra di loro ma, a ben vedere giuridicamente sussumibili in fatti materiali diversi.

Questa precisazione consente di equiparare, nell'ipotesi descritta, il consulente al testimone e dunque di inquadrare la condotta ai sensi del citato art. 377 c.p. in combinato disposto con le diverse fattispecie previste dalla stessa norma (artt. 371 bis e 372 c.p.), escludendo di contro la diversa ipotesi di istigazione alla corruzione.


giuseppinavitiello84@gmail.com

Foro di Torre Annunziata


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