di Lucia Izzo - Il ruolo delle autorità di protezione sociale è quello di aiutare le persone in difficoltà, guidarle e consigliare i benefici disponibili per cercare quantomeno di superare le difficoltà nelle quale intercorrono. Nel caso del legame madre-figli, è necessario fare il possibile per trovare le risorse necessarie a mantenerne l'integrità del rapporto.
Sulla base di tali premesse la Corte EDU con decisione del 13 ottobre 2015 (affare S.H. c. Italia), qui sotto allegata, ha ritenuto ricevibile la richiesta presentata da una madre che aveva visto dichiararsi l'adottabilità dei suoi tre figli poiché ritenuta inadeguata a prendersi cura di loro.
La ricorrente soffriva di depressione e seguiva una terapia farmacologica, pertanto i servizi sociali avevano informato le autorità competenti a seguito dell'aggravarsi delle sue condizioni, poichè ricoverata più volte d'urgenza a causa dell'accidentale ingestione dei suoi farmaci antidepressivi.
Il Tribunale provvedeva all'allontanamento dei bambini dalla famiglia, successivamente ricondotti dai propri genitori i quali avevano mostrato disponibilità ad accudirli, con l'aiuto dei servizi sociali e del nonno, secondo un progetto elaborato dagli operatori per superare le difficoltà riscontrate.
La ricorrente aveva iniziato una regolare terapia farmacologica e psicoterapica ed i genitori, nonostante le difficoltà, avevano reagito positivamente a quanto predisposto dai servizi sociali.
Un nuovo distacco veniva, tuttavia, disposto per l'aggravarsi della malattia della donna, costretta all'ospedalizzazione, e dall'allontanamento del padre dalla casa familiare.
Veniva aperta una procedura che culminava nella dichiarazione di adottabilità dei piccoli, nonostante la disponibilità ribadita dai genitori a prendersi cura di loro, precisando che i bambini non erano in situazione d'abbandono seppur la coppia si fosse separata, ed evidenziando anche il sostegno manifestato dal nonno paterno.
Sia in appello che in Cassazione viene ribadita la decisione di primo grado ed i bambini venivano trasferiti ognuno presso una famiglia affidataria diversa.
Da ciò scaturisce il ricorso innanzi alla Corte EDU, in cui la ricorrente evidenzia che, pur non esistendo alcuna situazione d'abbandono, ma soltanto alcune difficoltà familiari transitorie, lo Stato abbia agito in violazione dell'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che consente all'autorità pubblica l'ingerenza nella vita privata e familiare solo se costituisce una misura necessaria, prevista dalla legge.
Nonostante le obbligazioni positive e negative previste dall'art. 8 non si prestino a definizioni precise, la Corte chiarisce che la nozione di necessità implica che l'ingerenza statale sia fondata su un bisogno sociale urgente e sia proporzionale a quanto necessario, poiché non sono consentiti interventi arbitrari privi di rispetto per la vita familiare.
Il necessario contemperamento degli interessi contrapposti, deve tuttavia tenere in considerazione l'interesse superiore dei bambini che assume un ruolo determinante. In casi cosi delicati e complessi il margine di discrezionalità lasciato alle autorità nazionali competenti varia in base alla natura del litigio e degli interessi in gioco e, mentre lo Stato ha un ampio margine d'azione nel prendere in carico un bambino in caso di urgenza, nel caso di specie esistono circostanze che giustificano la non adottabilità.
Il rapporto genitori-figli rappresenta un elemento fondante della vita familiare, l'autorità competente deve, prima di eseguire una misura privativa come quella della dichiarazione di adottabilità, valutare l'incidenza che l'adozione avrà su genitori e figli ed eventualmente optare per soluzioni alternative.
L'Italia non è nuova a sindacati simili, poiché una simile situazione si era già verificata nel caso Zhou c. Italia.
Secondo la Corte EDU le autorità italiane non avrebbero attuato tutti gli sforzi adeguati e sufficienti per rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i suoi figli. Indubbio che un intervento in situazioni simili sia necessario al fine di proteggere l'interesse dei bambini, ma, se possibili, vanno preferite azioni meno radicali al fine di tutelare il rapporto madre-figlio.
Nel caso di specie, era stato attuato un sistema di sostegno per tutelare la famiglia, ma il Tribunale dopo soli due mesi ha scelto di dichiarare l'adottabilità dei minori nonostante il parere contrario degli esperti.
Nessuna analisi approfondita, ritiene la Corte, è stata svolta per comprendere l'incidenza della misura di adozione sulle persone interessate, considerando che la declaratoria di adottabilità nell'ordinamento italiano rappresenta una extrema ratio.
La donna ha dimostrato di volersi prendere cura dei figli, sollecitando ella stessa l'intervento dei servizi sociali, pertanto non è condivisibile che i giudici abbiano ritenuto tali richieste sintomo di un'incapacità ad esercitare il ruolo di genitore poiché i piccoli non erano stati sottoposti a maltrattamenti psichici o fisici e lo Stato avrebbe dovuto salvaguardare il loro interesse a vivere con la madre.
A ciò si aggiunge il percorso terapeutico volontariamente intrapreso dalla donna, la mobilizzazione del padre (nonostante la separazione) per trovare risorse in grado di sostenere la famiglia e l'intervento del nonno disposto ad aiutarlo.
L'allontanamento dai parenti biologici appare ingiustificato, così come l'aver collocato i bambini presso famiglie differenti allontanandoli anche dai loro stessi fratelli.
La Corte di Strasburgo ha quindi riconosciuto un danno morale quantificato in 32mila euro che lo Stato sarà tenuto a versare alla ricorrente.
Cedu, sentenza n. 52557/2014 affare S.H. c. Italia