di Lucia Izzo - Va condannata per stalking la madre che con reiterate condotte persecutorie molesta la figlia minore ingenerando in lei un fondato timore per l'incolumità propria costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita.
La Corte di Cassazione, sez. VI penale, con la sentenza n. 42566/2015 (qui sotto allegata), ha ritenuto inammissibile il ricorso di una donna contro la sentenza della Corte d'Appello che l'aveva condannata per il reato di atti persecutori (ex art. 612 bis c.p.).
Dinanzi ai giudici di legittimità, la ricorrente lamenta la mancanza dell'elemento psicologico atto a creare turbamento nella figlia e contesa anche la configurabilità dell'elemento soggettivo in chiave di dolo eventuale, quale accettazione preventiva del rischio di creare turbamento nella minore o costrizione ad abbondare le ordinarie occupazione.
Per gli Ermellini, tuttavia, tali doglianze risultano infondate, avendo i giudici di prime e seconde cure accertato la sussistenza di entrambi gli elementi che, integrandosi vicendevolmente, perfezionano il reato di stalking.
Numerose le condotte poste in essere contravvenendo al divieto di prendere contatti con la figlia, come stabilito da un decreto del Tribunale per i Minorenni: tra queste vanno rammentate le continue telefonate presso l'abitazione sua e dei nonni, gli incontri nei luoghi frequentatati dalla minore (istituti scolastici, luoghi di svago, ecc.), gli appostamenti nelle immediate vicinanze degli stessi, i pedinamenti alla figlia tentanto di avvicinarla e di prendere contatti con lei. Molestie talmente pervicaci da apparire, agli occhi della figlia, come pericolose per la sua incolumità tanto da modificare le sue abitudini di vita.
Pertanto, a ciò era seguita la condanna della donna, esclusa la recidiva, alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione.
Sul piano della dimensione oggettiva, per i giudici risulta accertata una condotta ossessiva da parte della donna, caratterizzata da reiterate, pervicaci, intromissioni e turbamenti nel vissuto esistenziale della minore e in spregio ai divieti e alle prescrizioni dell'organo giudiziario competente.
Appare evidente anche il nesso causale tra l'ostinata condotta e l'evento, ossia l'alterazione delle abitudini di vita della figlia spaventata per la propria incolumità.
Sotto il profilo soggettivo, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che "nel delitto di atti persecutori, l'elemento oggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi"
Per integrare il reato di stalking, quale reato abituale di evento, appare sufficiente la sussistenza del dolo generico (riscontrato nel caso di specie) stante la consapevolezza che le condotte poste in essere siano idonee a "cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita" (art. 612 c.p.).
Cass., VI penale, sent. 42566/2015