Avv. Paolo Accoti - Con le sentenze odiernamente in commento la Suprema Corte, incidentalmente, affronta alcune tematiche che possono avere ripercussioni anche in merito alle novità legislative introdotte con la riforma del lavoro (cd. Jobs Act).
Gli argomenti sottoposti al vaglio della Corte di Cassazione, attengono alla insussistenza del fatto contestato, posto a base del comminato licenziamento, per il quale consegue sempre la reintegra nel posto di lavoro, le ipotesi di demansionamento, che non si configurano con qualsiasi sottrazione di singoli compiti e, infine, l'applicabilità dello statuto dei lavoratori e, in particolare, l'art. 18 L. 300/70, nel pubblico impiego.
Ma andiamo per ordine e esaminiamo singolarmente le varie decisioni delle sezioni lavoro della Suprema Corte.
Licenziamento e inesistenza del fatto contestato: Cass. civ. Sez. lavoro, 26.11.2015, n. 20540 e n. 20545
L'art. 18 della legge 300/70, per come modificato dall'art. 1, co. 42, L. 28.06.2012, n. 92 (cd. legge Fornero), dispone che: "… Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma."
In altri termini, nella formulazione dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori - a seguito del varo della legge Fornero - la reintegrazione nel posto di lavoro, a prescindere dal requisito dimensionale del datore di lavoro, è ammissibile solo per i licenziamenti cd. discriminatori (per motivi di sesso, razza, religione, ecc.) ovvero per quelli comminati in concomitanza di matrimonio oppure per quelli disposti nel periodo di gravidanza (salvo casi particolari), di congedo parentale, o a cagione della domanda o della fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore.
Negli altri casi di licenziamento illegittimo è prevista esclusivamente l'indennità risarcitoria, con esclusione del diritto alla reintegra nel posto di lavoro.
Rimane, tuttavia, un'ulteriore generale ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro ed è quella per la quale, viene giudizialmente accertata l'insussistenza del fatto contestato ovvero quando il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
Tanto viene esplicitamente affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 20540 e 20545, del 26.11.2015, nelle quali viene evidenziato come: "L'accertamento della mancanza del nocumento grave è parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare onde determina quella insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 modif. dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, quale elemento costitutivo del diritto al ripristino del rapporto di lavoro. Questo elemento deve infatti considerarsi esistente qualora la fattispecie di illecito configurata dalla legge o dal contratto sia realizzata soltanto in parte. Nella sentenza qui impugnata manca l'accertamento dei fatti costituenti un grave danno ad un'impresa indicata in un annuncio elettronico quale cliente di altra impresa, operante in campo economico e merceologico completamente diverso, oppure l'accertamento di un grave nocumento morale o materiale derivato dall'indicazione del numero di apparecchi telefonici appartenenti all'impresa e forniti in dotazione al lavoratore dipendente" (Cass. civ. Sez. lavoro, 26.11.2015, n. 20545).
Inoltre: "Quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n.23669, che si riferisce ad un caso di insussistenza materiale del fatto contestato). In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e da perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4 cit." (Cass. civ. Sez. lavoro, 26.11.2015, n. 20540).
Non si può revocare in dubbio che gli anzidetti principi risultino applicabili anche ai licenziamenti comminati nella vigenza del decreto legislativo 4/03/2015, n. 23, emanato in attuazione della legge -delega del Jobs Act (L. 10 novembre 2014, n. 183) - e, pertanto, ai licenziamenti comminati ai dipendenti assunti dopo il 7.03.2015.
(Si veda in proposito: Riforma del lavoro, cosa cambia? Gli interrogativi sulle nuove assunzioni e le regole in caso di licenziamento previste dal "Jobs Act".)
Ed invero, il secondo comma dell'art. 3 del D.Lgs. 23/2015, analogamente a quanto previsto dalla legge Fornero, stabilisce come: "Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3.".
Appare evidente, pertanto, che anche ai lavoratori sottoposti al nuovo regime previsto dal jobs act (quelli assunti dopo il 7.03.2015), nel caso di licenziamento per insussistenza del fatto materiale, a cui deve essere equiparato quello comminato in presenza di comportamento lecito, vale a dire quando il fatto sanzionato con il licenziamento sia sussistente ma, tuttavia, privo del carattere di illiceità, sia applicabile la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro, a prescindere dai requisiti dimensionali del datore di lavoro.
Demansionamento. Non è sufficiente a violare l'art. 2103 c.c. qualsiasi sottrazione di singoli compiti: Cass. civ. Sez. lavoro, 24.11.2015, n. 23945
Premette la Suprema Corte, ricordando i propri precedenti, che il demansionamento, vale a dire la violazione dell'art. 2103 c.c., può verificarsi anche - quando ferma restando la medesima qualifica contrattuale - le nuove mansioni compromettano la professionalità già raggiunta (Cfr.: Cass. Sez. un. 24/11/2006, n. 25033).
Ciò posto, il giudice non può sindacare l'opportunità delle scelte gestionali dell'imprenditore, siccome esercizio del proprio potere discrezionale di variare il contenuto della prestazione dovuta dal lavoratore, quale espressione della libertà d'iniziativa economica (Cfr.: Cass. 30/01/2007 n. 1893; Cass. 15/02/2008 n. 3861; Cass. 12/07/2010, n. 16317; Cass. 19/04/2010, n. 9251).
Si devono, pertanto, bilanciare due contrapposti interessi, quello dell'imprenditore di perseguire il profitto attraverso un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente, con il diritto del lavoratore a non subire una vessatoria sottrazione di mansioni, tale da impoverire il suo patrimonio di conoscenze professionali così da portare anche ad una violazione del principio di buona fede di cui all'art. 1375 cod. civ. (Cfr.: Cass. 5/04/2007, n. 8596).
Fatta questa opportuna premessa, la Corte evidenzia come non sia sufficiente a violare l'art. 2103 c.c. qualsiasi sottrazione di singoli compiti, sempre che ciò non alteri i tratti essenziali delle competenze raggiunte dal prestatore di lavoro, tanto è vero che: "Specialmente nel momento in cui esigenze organizzative e produttive inducano mutamenti soggettivi nella titolarità del rapporto di lavoro, con incorporazioni o fusioni societarie, oppure con cessioni d'azienda o di singoli rami, è frequente che nelle categorie e qualifiche più alte, nelle quali l'attribuzione delle mansioni più facilmente si basa sull'intuitus personae, si possono avere diminuzioni di compiti e di responsabilità, non gratificanti ma neppure contrastabili in sede giudiziaria, onde non frustrare operazioni economiche, legittimamente perseguite nell'esercizio del potere di gestire l'impresa e, se occorra, di risanarla in tutto o in parte" (Cass. civ., Sez. lavoro, 24.11.2015, n. 23945).
Ciò posto, l'art. 2013 c.c., con la riforma del mercato del lavoro è stato radicalmente modificato (Si veda in proposito: Cambia l'art. 2103 c.c.: il lavoratore può essere adibito a mansioni diverse, anche inferiori e con retribuzione ridotta.)
Tanto è vero che, attualmente, il "nuovo" art. 2103, prevede che: "I. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. II. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. III. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni. IV. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. V. Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. VI. Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. VII. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. VIII. Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. IX. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo".
In conseguenza della riforma, il lavoratore può essere adibito in qualunque mansione inerente il medesimo livello di inquadramento; in pratica il legislatore ha consacrato il principio giurisprudenziale sopra detto, ma ha vieppiù previsto due ulteriori ipotesi nelle quali è possibile anche derogare al principio del medesimo livello di inquadramento, consentendo, pertanto, a determinate condizioni (ristrutturazione o riorganizzazione aziendale; altre ipotesi stabilite dai C.C.N.L.), l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori di un livello sia con identica retribuzione, ma anche con stipendio inferiore.
Posto che la nuova formulazione è entrata in vigore il 25.06.2015, in virtù del disposto dell'art. 57 (D.Lgs. 81/2015), vi è da chiedersi se il novello art. 2103 c.c., sia applicabile a tutti i lavoratori ovvero solo a quelli assunti dopo l'entrata in vigore della predetta norma, così prevedendo una sorta di duplice regime, così come avviene in materia di licenziamento dopo il D.Lgs. 23/2015 attuativo della Riforma del Lavoro 2015 (Jobs Act).
In materia, ad oggi, si registra un solo pronunciamento della giurisprudenza di legittimità, quello del Tribunale di Roma, che ha affrontato il delicato argomento nella sentenza del 30.09.2015.
Ebbene, il Tribunale, in virtù dell'assenza di una norma transitoria che modulasse la graduale entrata in vigore della nuova formulazione, ritiene che: "la descritta novella legislativa si applica anche ai rapporti di lavoro già in corso alla data della sua entrata in vigore".
Nel caso di specie, tuttavia, il Tribunale capitolino fornisce una importante precisazione.
Ed invero, fermo restando i presupposti del demansionamento, per come enucleati dalla previgente giurisprudenza, lo stesso deve essere trattato alla stessa stregua di un "illecito permanente", che si alimenta continuamente e produce, pertanto, i suoi effetti per tutto il tempo in cui il lavoratore viene comandato a svolgere mansioni inferiori.
Sul piano pratico ciò comporterà i seguenti effetti:
1) Per tutti i lavoratori, dal 25.06.2015, con la previsione della nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., non si potrà più parlare di demansionamento, in caso di mantenimento del medesimo livello di inquadramento o anche di adibizione a mansioni inferiori di un livello - anche con decurtazione dello stipendio - in caso di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e nelle altre ipotesi stabilite dai C.C.N.L.
2) Limitatamente alle condotte asseritamente illecite, poste in essere prima del 25.06.2015, con l'assegnazione a mansioni inferiori, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno fino a tale data, successivamente, se l'assegnazione delle mansioni inferiori rientra nelle ipotesi sopra viste, per come dettate dal nuovo art. 2103 c.c., opererà la sanatoria della condotta, la stessa non sarà più ritenuta illecita e, conseguentemente, s'interromperà l'eventuale diritto al risarcimento del danno maturato fino a quel momento.
L'applicabilità del riformato art. 18 L. 300/70 anche ai pubblici dipendenti
Come detto, la riforma del mercato del lavoro, con il D.Lgs. 23/2015, ha modificato profondamento l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, prevedendo - come visto sopra - la reintegra in caso di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale ovvero in caso di insussistenza del fatto materiale e la sola indennità risarcitoria negli altri casi, commisurata all'anzianità di servizio (cd. tutele crescenti), dimezzata in caso di datore di lavoro con meno di 15 dipendenti (5 se azienda agricola).
Detta nuova disciplina è stata espressamente ritenuta applicabile: a tutti i lavoratori con qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto a tempo indeterminato con decorrenza 7 marzo 2015; ai lavoratori assunti in precedenza con contratto a tempo determinato o apprendistato, nel caso di conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato, avvenuta con decorrenza dalla suddetta data.
Rimangono esclusi, pertanto, dal campo di applicazione della norma i lavoratori assunti prima del 7.03.2015, per i quali continuerà ad applicarsi la normativa previgente.
In virtù delle precisazioni del Ministero del Lavoro, dell'epoca, sembrava che dovessero vieppiù rimanere esclusi dal campo di applicazione anche i pubblici dipendenti.
Tuttavia, la Suprema Corte smentisce il Ministero, ritenendo applicabile il nuovo art. 18 L. 300/70 anche ai lavoratori pubblici.
Infatti, con sentenza n. 24157, del 26.11.2015, la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, afferma che: "l'inequivocabile tenore del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 cpv. prevede l'applicazione anche al pubblico impiego c.d. contrattualizzato della L. n. 300 del 1970 "e successive modificazioni ed integrazioni", a prescindere dal numero di dipendenti. Dunque, è innegabile che il nuovo testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, trovi applicazione ratione temporis al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge c.d. Fornero di cui parla l'impugnata sentenza".
Ciò posto, a prescindere dal fatto che la sentenza abbia avuto ad oggetto un'ipotesi di licenziamento comminata nella vigenza della L. n. 92 del 2012, l'affermazione relativa all'applicazione anche al pubblico impiego c.d. contrattualizzato della L. n. 300 del 1970 "e successive modificazioni ed integrazioni", porta a ritenere l'applicabilità del nuovo testo dell'art. 18 Stat., per come ridisegnato dall'art. 3 del D.Lgs. 23/2015 (jobs act), anche al pubblico impiego.
Logica conseguenza di ciò è quella per cui, in caso di illegittimità del provvedimento espulsivo comminato ai dipendenti pubblici, questi, al pari dei lavoratori privati, in relazione al tipo di illiceità riscontrata, potrebbero aver diritto alla reintegrazione ovvero solo alla indennità risarcitoria.
Tanto è vero che nella legge di riforma del mercato del lavoro, alcun esplicito riferimento viene avanzato in merito alla presunta esclusione dei dipendenti pubblici dall'ambito di operatività della legge.
L'esclusione dei dipendenti pubblici dall'alveo della riforma, era stata una mera deduzione del Ministero del Lavoro, ora tuttavia smentita dalla Suprema Corte.
Peraltro, anche un tardivo intervento legislativo in tal senso, a questo punto porrebbe seri problemi di costituzionalità, in relazione al diverso trattamento riservato ai dipendenti pubblici, rispetto a quelli del settore privato.
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