di Marina Crisafi - Anche parcheggiare male può costituire reato: se si blocca il passaggio alle altre autovetture, infatti, è integrato il delitto di violenza privata. Lo ha ricordato la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 48346/2015, depositata il 7 dicembre scorso (qui sotto allegata), rigettando il ricorso proposto da una donna avverso la decisione della Corte d'Appello di Genova che la condannava alla pena (sospesa) di 15 giorni di reclusione e al risarcimento del danno in favore della parte civile per il reato di cui all'art. 610 c.p.
Per la Corte, ha ragione la persona offesa a lamentare il mancato riconoscimento del delitto di violenza privata in ordine alla condotta contestata all'imputata che si era resa protagonista di un parcheggio "selvaggio" della propria autovettura davanti all'accesso del luogo dove era contenuta l'auto della parte offesa, impedendo di fatto ogni passaggio.
A nulla valgono le doglianze della difesa in tal senso.
L'elemento della violenza nella fattispecie criminosa di violenza privata hanno affermato infatti dal Palazzaccio "si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza "impropria", che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione". Ed invero è stato più volte affermato, dalla stessa Cassazione, che "integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l'accesso alla parte lesa, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione" (cfr. Cass. n. 8425/2013).
Per cui, la condotta della donna che ha bloccato ogni "via d'uscita" al veicolo della parte offesa, integra senza dubbio il reato ex art. 610 c.p.
Cassazione, sentenza n. 48346/2015