di Marina Crisafi - È meglio non parlar male dei colleghi, soprattutto su Facebook, altrimenti si rischia una condanna per diffamazione. È quanto è avvenuto a un maresciallo della Guardia di Finanza che, non avendo preso "bene" la sua sostituzione alla guida della compagnia da parte di un commilitone, gli aveva tranquillamente dato del "raccomandato" e "leccaculo" nella sua bacheca social.
Ovvia la reazione del destinatario del post (il maresciallo designato a succedergli cioè) che lo trascina in giudizio. E inevitabile la condanna dei giudici di merito, confermata ora anche dalla Cassazione.
Per il Palazzaccio (sentenza n. 49066/2015, qui sotto allegata) non c'è dubbio infatti sulla responsabilità dell'uomo per il reato di diffamazione pluriaggravata, affermata dai giudici d'appello.
Anche se l'imputato non aveva fatto nomi, né indicato funzioni o riferimenti cronologici, è chiaro, infatti, il "carattere ingiurioso e provocatorio delle espressioni usate" nello scritto, ed è chiara altresì la sussistenza del dolo generico, in quanto il suo inserimento nel profilo di Facebook e il contenuto offensivo andavano ricondotti "alla libera consapevole volontà dello stesso imputato, il condizionamento della cui autodeterminazione non era stato oggetto di allegazione e di prova e la cui esplicazione era avvenuta attraverso il ricorso a uno strumento comunicativo di generalizzata e spiccata attitudine ricettiva".
Contrariamente da quanto affermato dalla difesa, nelle espressioni utilizzate dal maresciallo, "vestite" da riferimenti soggettivi ("collega"), temporali ("attualmente"), motivazionali ("incorsa defenestrazione per l'arrivo del collega") e personali ("stato coniugale"), ci sono insomma tutti gli elementi per risalire all'individuazione del destinatario, anche solo a un ristretto numero di persone, quali gli stessi militari della compagnia.
Da qui, la conferma della condanna a 3 mesi di reclusione militare.
Cassazione, sentenza n. 49066/2015