In passato, la giurisprudenza di legittimità negava una simile configurabilità a favore dei familiari della vittima di lesioni personali, riconoscendo la facoltà di agire in giudizio solo nel caso di omicidio (cfr., ex plurimis, Cass. Civ., n. 11396/1997).
La distinzione in merito alla pretesa risarcitoria poggiava essenzialmente sul concetto di danno diretto ed immediato enunciato dall'art. 1223 c.c.: solo colui che subiva direttamente un pregiudizio, poteva agire in giudizio per l'ottenimento del relativo risarcimento.
Pertanto, nel caso di lesioni personali, tale diritto era riservato esclusivamente alla persona offesa, l'unica colpita in modo diretto dal pregiudizio, mentre i congiunti potevano reclamare il ristoro solo in caso di omicidio, essendo venuta meno la vittima.
In tempi più recenti, gli Ermellini, mutando orientamento, hanno esteso il diritto al risarcimento del danno anche ai familiari della vittima di lesioni personali, in quanto sussiste con la persona offesa una particolare situazione affettiva.
Il disposto dell'art. 1223 c.c. non appare, dunque, ostativo a detto riconoscimento, dato che il danno morale subito dai congiunti della vittima trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (cfr., Cass. Civ., SS.UU., n. 9556/2002).
In sostanza, secondo l'attuale impostazione tracciata dalla S.C. di Cassazione, un unico fatto illecito può essere lesivo di più posizioni soggettive, aprendosi così la strada verso il c.d. danno riflesso. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità non si è arrestata fino a questo punto, ma anche ha superato il tradizionale orientamento secondo il quale il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. si identifica unicamente con quello morale.
Già con le note sentenze gemelle del 31/05/2003, la n. 8827 e la n. 8828, la S.C. ha ampliato il concetto di danno non patrimoniale, riconducendo in questo ogni danno derivante dalla lesione dei valori inerenti alla persona. Pertanto, anche il danno morale, distinto da quello non patrimoniale, è stato ricondotto nell'alveo di questo al fine di evitare la duplicazione delle azioni risarcitorie (cfr. Cass. Civ., SS.UU., n. 26972/2008).
Proprio a causa di tale reductio ad unitatem, il concetto stesso di danno morale è stato ampliato: non solo più il turbamento psicologico determinato dall'illecito, ma anche il mutamento dell'esistenza del danneggiato, comprensivo del danno patito a causa della morte del congiunto.
In siffatto modo, gli Ermellini hanno scorto il c.d. danno esistenziale, collegato e collegabile a quello da perdita del rapporto parentale. Sul pregiudizio de quo, i giudici di legittimità hanno precisato in particolare due aspetti. Il primo è quello legato ai soggetti legittimati a richiedere il risarcimento del danno: la sola qualifica di parente non è di per sé sufficiente a consentire di agire per l'ottenimento del ristoro. L'attore dovrà dimostrare ed allegare non solo in vincolo parentale, ma anche il radicale cambiamento dello stile di vita, determinato dal fatto dannoso. L'allegazione consisterà necessariamente in elementi precisi e circostanziati. Tuttavia, a favore della parte attrice può soccorrere il sistema delle presunzioni semplici: il danno potrà dunque presumersi sulla base del vincolo familiare, della coabitazione e della frequentazione tra la vittima in vita ed i suoi congiunti (cfr., Cass. Civ., SS. UU., n. 6454/2009).
Si tratta ad ogni modo di presunzioni iuris tantum, vincibili in sostanza da prova contraria: ad es., da elementi che dimostrino la mancanza di una lesione in capo ai congiunti dovuta a forti contrasti, a dissapori, a liti, a casi di separazione coniugale, etc. Qualora ad agire non siano i prossimi congiunti della vittima, il sistema delle presunzioni non potrà essere fatto valere, e si dovrà provare sia il vulnus parentale, sia il legame affettivo tra i ricorrenti ed il soggetto leso (cfr., Cass. Civ., n. 16018/2010).
L'altro aspetto legato sempre al danno da perdita parentale è quello concernente la quantificazione e la liquidazione della lesione.
In tale ottica, la S.C. asserisce che il danno da perdita parentale deve essere integralmente risarcito mediante l'applicazione dei criteri di valutazione equitativa, rimessi alla discrezionalità del giudice di merito.
La quantificazione della lesione dovrà tenere presente tutti gli elementi della fattispecie, determinando così la cd. personalizzazione del caso de quo (cfr., Cass. Civ., n. 10107/2011). Il giudice di merito è altresì libero di ricorrere alle tabelle, ma detto strumento, utile e pratico, non può essere considerato un indice infallibile ai fini della determinazione del danno: esso difatti svolge l'importante funzione di evitare l'assoluta discrezionalità del giudice medesimo.
Il giudice, pertanto, sarà tenuto a personalizzare il quantum del danno, ricorrendo alle tabelle e ad una valutazione equitativa debitamente motivata.