di Marina Crisafi - Sberle e botte quotidiane, anche con oggetti contundenti, a un figlio, integrano per il genitore il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non il mero abuso dei mezzi di correzione, a prescindere se le violenze sono poste in essere con fini correttivi ed educativi. A ricordarlo è la Corte d'Appello di Trento nella sentenza n. 185/2015 (qui sotto allegata), accogliendo il ricorso del procuratore e confermando la condanna nei confronti di una donna thailandese per il reato di cui all'art. 572 c.p. per i modi eccessivamente maneschi con cui stava tirando su la propria figlioletta.
La madre era stata denunciata dal marito italiano per aver cresciuto la bambina sin dall'età di tre anni a suon di botte, punendola ogni qualvolta "si comportava male" con percosse, pizzicotti, utilizzando anche utensili da cucina e qualsiasi a oggetto le capitava a tiro e in contesti che palesavano l'evidente sproporzione, se non la gratuità della punizione. E ciò sulla base, a detta della donna, di una concezione "pedagogica" culturale di cui era portatrice essendo stata cresciuta nel suo paese con identici metodi.
La madre manesca veniva, quindi, imputata per il reato di maltrattamenti in famiglia ma il Gup riteneva sussistente il meno grave delitto di abuso dei mezzi di correzione, in quanto, pur non potendo avere valore esimente la concezione culturale e pedagogica di cui la stessa era portatrice, dalla perizia non era emerso alcun disturbo postraumatico in capo alla bambina per via del comportamento materno.
Ma per la Corte d'Appello, la vicenda va letta in modo più grave.
Per i giudici trentini, infatti, posto che le percosse non erano certamente episodiche ma reiterate e costanti, la condotta materna era comunque da ritenersi "sorretta dal dolo generico richiesto dalla fattispecie che non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di condotte vessatorie, né tantomeno lo specifico intento di rendere insopportabile la vita al soggetto passivo, ma solo la coscienza e la volontà di persistere in un'attività che provoca nella vittima sofferenza fisica e/o psichica, resa evidente nel caso di specie dai pianti disperati della bambina, oltre che dagli altrui richiami".
Per cui, a detta della corte, non possono condividersi le motivazioni del Gup che "dopo aver dato per pacifica la condotta particolarmente manesca dell'imputata, l'ha però ritenuta sostenuta da una finalità educativa - correttiva, che non solo non trova riscontro, ma che con essa platealmente collide, posto che l'esigenza di salvaguardare la dignità del bambino esclude il ricorso a metodi educativi fondati sulla mortificazione della personalità e sulla punizione fisica".
Né possono adottarsi diversi criteri in relazione al "particolare bagaglio socioculturale di cui è portatore l'agente - ha concluso il giudice d'appello, richiamando la consolidata giurisprudenza della Cassazione in materia (Cass. n. 36564/2012) - dal momento che in materia vengono in gioco valori fondamentali dell'ordinamento (consacrati nei principi di cui agli artt. 2, 3 ,30 e 32 Cost.), che fanno parte del visibile e consolidato patrimonio etico culturale della nazione e del contesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e, come tali, non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile". Da qui, l'accoglimento dell'appello e la condanna della donna.
Corte d'Appello Trento, sentenza n. 185/2015