di Lucia Izzo - Il diritto di critica può scriminare il reato di diffamazione a mezzo lettera.
Nella sentenza n. 50099/2015 (qui sotto allegata) la V sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito fino a che punto gli atteggiamenti di critica possono costituire una scriminante per quanto riguarda il reato di diffamazione.
Nel caso sottoposto ai giudici di Piazza Cavour, un uomo si era visto condannare del reato di cui all'art. 595, comma primo e secondo, c.p. per avere, in una lettera indirizzata a più persone, offeso la reputazione di un funzionario della Direzione Turismo della Regione Piemonte, attribuendogli una prospettazione di fatti ingannevoli, con finalità di raggiro, al fine di far desistere il primo dalla richiesta di rettifica di una domanda amministrativa e dalla presentazione di un ricorso al TAR.
Il giudice di legittimità chiarisce che certamente "in tema di diffamazione, il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato".
Ciò significa che il contesto nel quale si colloca la condotta può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, "ma non può in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale".
Tuttavia il ricorrente, lamentando che una sua domanda di contributo regionale fosse stata accolta solo parzialmente per un mero errore materiale nell'indicazione del finanziamento richiesto, utilizzava "termini aspri" per dolersi di essere stato indotto a non insistere nella tutela della proprie ragioni dal comportamento ingannevole serbato dalla persona offesa.
Nonostante il tono, l'uomo non trasmodava "in un gratuito attacco alla persona del destinatario, in quanto tale, rappresentano null'altro che una elaborazione critica della vicenda, certo non limpida, in ragione della specifica condizione dell'imputato, ma non avulsa, quantomeno sul piano soggettivo, dal contesto procedimentale in cui si inserisce".
Quindi il ricorrente, lungi dall'attribuire uno specifico interesse fraudolento alla persona offesa, intendeva soltanto evidenziare, "si ripete in termini scortesi", di aver trovato un funzionario eccessivamente formalistico nel suo operato e poco attento ai profili sostanziali della vicenda che aveva interessato il ricorrente.
Tale principio ha trovato conferma in un precedente della Corte (Sez. 5, n. 23579 del 17/02/2014) che aveva ritenuto sussistente l'esimente di cui all'art. 51 c.p. nel caso in cui le espressioni utilizzate, pur aspre e polemiche, non avevano rappresentato aggressioni gratuite, essendo preordinate al ripristino di comportamenti corretti.
La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.