di Lucia Izzo - Minorenne costretta a subire abusi sessuali da fratellastro e sorellastra più grandi: la punizione non tarda ad arrivare, ma non per la madre inizialmente accusata di concorrere nel reato perpetrato e sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere per concorso in violenza sessuale.
La donna viene dichiarata innocente per insussistenza del fatto contestato, ma ciò non significa che la richiesta di "equa riparazione" presentata dalla donna possa essere automaticamente accolta.
Anzi, secondo i giudici emerge la condotta "gravemente colposa" della madre che ha sottovalutato i disagi della figlia anche a seguito di segnalazioni da parte del personale scolastico.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. IV Penale, con sentenza n. 51/2016 (qui sotto allegata) depositata il 5 gennaio.
La madre della bambina molestata, inizialmente indagata e trattenuta in carcere, viene dichiarata innocente dal Tribunale di Varese e, in base a tale decisione, presenta domanda di riparazione per la misura cautelare sofferta.
Tuttavia, la sua richiesta non merita accoglimento.
Gli Ermellini chiariscono in prima battuta che "il giudizio penale ed il giudizio per l'equa riparazione sono tra di loro autonomi ed impegnano piani di indagine diversi".
Mentre per la sentenza assolutoria di merito il giudice penale valuta "la sussistenza o meno di una ipotesi di reato e la sua riconducibilità all'imputato", per quanto riguarda il riconoscimento del diritto all'equa riparazione devono essere indicati, in una prospettiva ex ante, "gli elementi della condotta che hanno dato origine all'apparenza di illecito penale, ponendosi come causa o come concausa della detenzione".
Tali valutazioni "possono portare a conclusioni del tutto differenti (assoluzione nel processo, ma rigetto della richiesta riparatoria) sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti" poiché questo viene vagliato nei due giudizi con parametri valutativi diversi.
Ed è proprio quanto avvenuto nel caso di specie: la condotta della madre è caratterizzata da "grave negligenza" e imprudenza, poiché il suo comportamento ha ingenerato "la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto".
L'indagine anatomica effettuata nel giudizio di merito aveva delineato un quadro compatibile con gli abusi sessuali subiti dalla minore e la bambina aveva in più occasioni mostrato il suo disagio, anche a scuola.
La donna non aveva, tuttavia, dato peso non soltanto a quanto la figlia minore, ma anche lo stesso istituto scolastico le andava segnalando.
Pertanto il comportamento tenuto dalla ricorrente nella vicenda in esame, caratterizzato da disarmante leggerezza circa i ripetuti "allarmi" relativi agli inusuali comportamenti che la bambina teneva a scuola, ha comportato l'abdicazione totale "al suo ruolo di madre che ha, come precipuo dovere, quello di tutelare e garantire l'incolumità psico-fisica della sua prole".
Inoltre, ciò "ha contribuito, in maniera sera ed incontrovertibile, a dare causa, per colpa grave, all'emanazione della custodia cautelare in carcere sofferta nei suoi confronti, perché ha creato l'equivoco nel giudice di essere anche lei partecipe degli illeciti commessi" dai due imputati, poi condannati per il reato commesso.
La donna, quindi, venendo meno ai doveri di controllo e protezione che ricadono sui genitori, ha dato causa alle misure emesse nei suoi confronti favorendo "il crearsi dell'apparenza di un suo concorso nelle condotte delittuose in danno della figlia minore".
Ne consegue che il ricorso deve essere respinto e che la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali.
Cass., IV sez. penale, sent. 51/2016