di Valeria Zeppilli - In giorni in cui si è sentito spesso discutere della punibilità della coltivazione della cannabis a scopo terapeutico, a causa dell'opera di depenalizzazione recentemente completata dal Governo (leggi: "Ingiuria, marijuana, guida senza patente: ecco tutti i reati definitivamente cancellati"), anche la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di stupefacenti, stabilendo che la condotta di coltivazione di piante dalle quali è possibile estrarre tali sostanze è punibile solo se la pianta ha una capacità drogante effettiva e attuale.
Il divieto di cui alla norma penale, infatti, mira a tutelare la salute pubblica, che non può essere messa a repentaglio se non vi è capacità drogante e non vi è quindi il rischio di creare occasioni di spaccio.
Insomma: se la pianta di cannabis coltivata è piccola, non c'è reato.
A precisarlo, più in particolare, è la sentenza numero 2618/2016, depositata dai giudici di legittimità lo scorso 21 gennaio (qui sotto allegata), accogliendo il ricorso di un uomo condannato in appello alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309/1990 per avere coltivato nove piante di cannabis indica.
L'uomo si rivolge alla Cassazione eccependo la totale assenza di offensività della sua condotta, in quanto le piantine in questione non avevano alcun effetto drogante, come accertato anche dalla relazione del Ris, da cui emergeva un titolo medio pari allo 0,1%. Non solo. Lamentava l'uomo che i giudici di merito non avevano effettuato nessuna verifica reale circa l'idoneità lesiva della condotta, attribuendo anche scarso rilievo alla mancata esibizione delle piantine: richiesta che se fosse stata consentita avrebbe reso evidente che si trattava di piantine minuscole contenute in bicchierini da caffè non giunte a maturazione e quindi prive di effetto drogante.
E la Cassazione gli dà ragione.
Nella pronuncia in commento, la Corte ha ricordato che l'offensività in generale, compatibile con i reati di pericolo presunto, deve essere ravvisata concretamente almeno in grado minimo nella condotta dell'agente. In caso contrario la fattispecie rifluisce nel reato impossibile.
"Dequotare" il principio di offensività nei reati di pericolo presunto, del resto, comporta il rischio di andare a colpire condotte di semplice disobbedienza anche senza un'effettiva esposizione a rischio del bene protetto e di minare la compatibilità costituzionale di simili delitti.
Quindi, precisano i giudici, nel rispetto del principio di necessaria lesività, è fondamentale dimostrare la probabilità che ci sia un evento lesivo, ovverosia, nel caso di specie, che la sostanza abbia efficacia drogante ogni oltre ragionevole dubbio.
Le piantine, insomma, per rendere punibile la condotta di coltivazione, devono avere una potenziale lesività, da accertarsi con riferimento all'attualità, senza che rilevi una futura ed eventuale capacità di mettere in pericolo il bene giuridico protetto.
Nel caso di specie, i giudici di merito invece si erano limitati ad una verifica sulla corrispondenza delle piantine alla specie botanica vietata, ritenendo irrilevante che avessero un principio di Thc bassissimo e che non fossero giunte a maturazione: essendo "poco più che germogli" come evidenziato anche dalla consulenza tecnica, le piantine non potevano avere proprietà stupefacenti, e dunque, in grado di realizzare in concreto la condotta offensiva contestata. Per cui, la sentenza va annullata e la parola passa al giudice del rinvio.
Corte di cassazione testo sentenza numero 2618/2016