Nessun risarcimento danni se l'eccesivo carico di lavoro è derivato da da negligenze del dipendente

di Valeria Zeppilli - Se il dipendente lamenta di essere caricato di una mole ingente di lavoro e di essere sottoposto a richieste ingiustificate dal datore, come il rifiuto di ferie e lo straordinario non dovuto, non per ciò solo può ritenersi integrata un'ipotesi di mobbing. Soprattutto se il lavoro è divenuto "troppo" per l'inadempienza del lavoratore stesso.

Proprio per tale ragione la Corte di cassazione, con la sentenza numero 2116/2016 depositata il 3 febbraio (qui sotto allegata), ha respinto il ricorso di un portalettere che chiedeva di essere risarcito del danno da mobbing, a seguito dei presunti atteggiamenti persecutori posti in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti.

A dire del lavoratore, aveva subito sanzioni disciplinari per l'enorme quantitativo di giacenza della corrispondenza a lui non imputabile e continue richieste ingiustificate da parte dell'azienda datrice, che era arrivata a chiedere lavoro straordinario non dovuto e a rifiutare le sue richieste di ferie.

In realtà, però, dall'analitica ricostruzione fatta dalla Corte d'appello circa gli addebiti mossi nel corso degli anni al dipendente era emerso che le sanzioni inflitte erano state tutte confermate in sede giudiziale tranne una e che le prestazioni di lavoro straordinario erano state ritenute legittime.

Nessun carico eccessivo di lavoro, inoltre, era stato riscontrato nelle doglianze del lavoratore, ma semmai erano emerse delle continue inadempienze di quest'ultimo che avevano fatto accumulare lavoro arretrato.

Insomma: né le sanzioni né le contestazioni possono essere considerate discriminatorie né motivate da una guerra psicologica.

Esse sono solo conseguenze del fatto che il dipendente è poco collaborativo, negligente e restio a seguire le direttive e gli ordini dei superiori.

Niente da fare, dunque, per il dipendente inadempiente: non solo resta a mani vuote, ma deve farsi carico anche delle spese del giudizio di legittimità.


Corte di cassazione testo la sentenza numero 2116/2016
Valeria Zeppilli

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