di Valeria Zeppilli - La condanna per maltrattamenti in famiglia non può prescindere dall'accertamento di un atteggiamento di passiva soggezione da parte della vittima. Se questo atteggiamento manca, infatti, il reato non è configurabile. Specie se la vittima si contrappone reattivamente a tutti gli episodi di maltrattamento.
Questo è quanto emerge dalla sentenza numero 5258/2016, depositata dalla sesta sezione penale della Corte di cassazione lo scorso nove febbraio (qui sotto allegata).
I giudici di legittimità, in particolare, hanno confermato la sentenza con la quale la Corte d'appello aveva ribaltato la decisione del Tribunale di condanna di un uomo per maltrattamenti in famiglia e violenza privata all'esito di un giudizio abbreviato.
Tra moglie e marito, infatti, nel caso di specie vi erano un'accesa conflittualità, forti tensioni e radicate contrapposizioni. Entrambi, inoltre, erano dotati di cultura, formazione professionale, condizioni sociali ed economiche superiori alla media.
Dinanzi ai riscontrati atteggiamenti dell'imputato, dal temperamento irascibile e non incline alla moderazione, la moglie mostrava una capacità reattiva e nessun supino atteggiamento.
Nonostante l'astratta configurabilità del reato, mancava, insomma, nella prassi la possibilità di identificare in quello tenuto dall'uomo un comportamento caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione e basato su una posizione di passiva soggezione di un soggetto nei confronti dell'altro, che solo avrebbe potuto configurare un'ipotesi di maltrattamenti in famiglia.
Con l'occasione i giudici hanno chiarito anche che tale fattispecie criminosa deve consistere in una condotta abituale e composta da più atti, realizzati in momenti successivi, che comportano nella vittima una sofferenza sia fisica che morale nell'unica intenzione di ledere l'integrità del soggetto passivo.
Corte di cassazione testo sentenza numero 5258/2016