di Marina Crisafi - È escluso il danno alle parti se il giornale pubblica arbitrariamente gli atti di un procedimento penale. L'art. 684 c.p. infatti che sanziona tale condotta ha quale esclusivo scopo quello di tutelare l'interesse dello Stato al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria. Per cui i privati non hanno diritto ad un'autonoma pretesa di risarcimento soltanto per la violazione di tale norma. A stabilirlo sono le sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 3727/2016 depositata ieri (qui sotto allegata), pronunciandosi sul noto caso Mediaset.
La vicenda
Il caso prendeva le mosse da un articolo pubblicato da Repubblica nel 2005 che traeva spunto dall'avviso di conclusione delle indagini effettuate dalla Procura di Milano sulla presunta frode fiscale nella compravendita di diritti televisivi, commessa da parte dei vertici dell'azienda fondata dall'allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi.
Mediaset chiedeva il risarcimento dei danni subiti alla società editrice (il gruppo editoriale L'espresso), al direttore della testata e al giornalista, per la violazione sia delle norme sulla privacy sia dell'art. 684 c.p.
La decisione
Ma la Cassazione, sposando una tesi minoritaria in giurisprudenza, ha rigettato le richieste.
Il punto su cui si sono concentrate le sezioni unite civili, è la natura monoffensiva del reato ex art. 684 c.p.
Pur dando conto dell'orientamento prevalente che vede nella disposizione un reato di natura plurioffensiva, diretto a tutelare anche la dignità e reputazione dei partecipanti al processo e non solo l'interesse dello Stato al funzionamento della giustizia, dal Palazzaccio escludono invece che la norma tuteli automaticamente anche le parti coinvolte nel processo penale, senza una concreta lesione della reputazione o riservatezza.
Determinante, in tal senso, è l'articolo 114, ultimo comma, c.p.p., secondo il quale è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti da segreto. Il legislatore, osservano le S.U., consentendo la divulgazione di sintesi o parafrasi di tali atti ha voluto conciliare l'impianto accusatorio col diritto ad informare e ad essere informati.
"La scelta operata dal legislatore nel 1988 - si legge nella sentenza, si rivelerebbe - priva di senso ove la si voglia ritenere preordinata a tutelare anche la dignità e la reputazione dei soggetti che, in varia guisa, partecipano al processo. Non si vede, invero, come siffatti beni possano essere conculcati dalla riproduzione testuale degli atti processuali più che dalla esplicitazione del loro contenuto, che mette in ogni caso sulla piazza vicende personali della parte di volta in volta interessata".
Per di più nell'articolo venivano riportate meramente le risposte riprese dall'interrogatorio dell'avvocato inglese David Mills, considerate dalla Corte riproduzioni "marginali e minime".
Per cui la richiesta è respinta.
Cassazione, sentenza n. 3727/2016• Foto: 123rf.com