di Giovanni Tringali - Recentemente la Cassazione con sentenza n. 6916/2016, ha affrontato il tema del c.d. falso valutativo commesso dai soggetti preposti alla redazione dei documenti contabili societari nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato dalla Banca Popolare dell'Alto Adige contro il provvedimento di sequestro preventivo adottato dal Gip di Vicenza in data 24/07/2015 in relazione al reato di false comunicazioni sociali. Il Tribunale del Riesame di Vicenza aveva respinto il ricorso confermando il sequestro.
Qualche tempo prima, con la sentenza n. 890/2016, la medesima Corte si è occupata di un caso di bancarotta societaria enunciando alcuni punti interessanti in merito alla rilevanza penale del c.d. falso valutativo.
Prima di iniziare a vedere il caso concreto, si consideri che il bilancio - principale strumento di informazione - si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazione concettuale consistente nell'assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica. Il Codice Civile
e gli organismi contabili nazionali ed internazionali dettano i "principi" che devono essere seguiti per redigere il bilancio al fine di garantire la corretta informazione dei terzi circa l'esatta situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società. Il legislatore, inoltre, ha stabilito precisi "criteri per le valutazioni" delle poste di bilancio (si pensi ad es. all'art. 2426 c.c.) per cui, già il sol fatto di chiedersi cosa comporti il non seguire questi principi e questi precisi criteri, dà l'idea della questione che andremo ad affrontare e ci proietta nella nuova dimensione penale dell'art. 2621 c.c.Le norme in gioco
Testo attuale | Testo previgente |
2621 c.c. - False comunicazioni sociali 1. Fuori dai casi previsti dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni. 2. La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. | Art. 2621 c.c. - False comunicazioni sociali 1. Salvo quanto previsto dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l'arresto fino a due anni. 2. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. 3. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento. 4. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta. 5. Nei casi previsti dai commi terzo e quarto, ai soggetti di cui al primo comma sono irrogate la sanzione amministrativa da dieci a cento quote e l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni, dall'esercizio dell'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'impresa. |
La questione di merito
Si trattava dell'iscrizione in bilancio del valore delle quote di partecipazione acquisite per un valore di 38 milioni di Euro. Nel successivo bilancio del 2011 la banca aveva ridotto il valore delle predette quote a 20,5 milioni di Euro, iscrivendo contemporaneamente il valore di 18 milioni di Euro quale credito nascente nei confronti della cessionaria in seguito ad una svalutazione espressamente prevista in una clausola del contratto di cessione delle quote stesse. La parte ricorrente sosteneva che proprio la circostanza che fosse stata iscritta in bilancio la cifra di 17,8 milioni di Euro come credito e non già, come rappresentato in tesi dall'accusa, come mera attività potenziale confermava la "natura valutativa" delle predetta iscrizione in bilancio e dunque l'insussistenza di una ipotesi criminosa contestabile secondo la nuova veste assunta dall'art. 2621 c.c..
Motivi di doglianza
Il primo motivo di doglianza era basato sul fatto che, in seguito alla novella legislativa disposta con la legge 69/2015, sono state introdotte alcune modifiche nel tessuto normativo relativo all'art. 2621 c.c., prevedendosi il requisito della "rilevanza" dei fatti materiali e la scomparsa di ogni riferimento alle "valutazioni" per cui devono essere considerati depenalizzati i falsi estimativi. Il Tribunale del Riesame aveva stabilito che non si era trattato di una errata stima delle partecipazioni, ma di una situazione oggettiva in cui non si erano tenuti in considerazione elementi fattuali noti dai quali si evinceva che l'iscrizione in bilancio del valore delle quote acquistate dall'istituto di credito non corrispondeva al valore reale della partecipazione. La parte ricorrente sosteneva invece che nel caso di specie si trattava di una valutazione perché riguardava l'operazione di iscrizione del valore delle quote di partecipazione acquisite, valore che era stato peraltro correttamente fissato nel prezzo di acquisto delle quote, e cioè al valore di 38 milioni di Euro.
Il secondo motivo di impugnativa riguardava la violazione degli artt. 19 e 53 del D.lgs. 231/2001 in relazione al profilo della determinazione del profitto confiscabile. La parte ricorrente evidenziava l'erroneità della decisione impugnata là dove aveva confuso il concetto di vantaggio con quello di profitto eventualmente confiscabile. Secondo l'istituto di credito, affinché vi sia un profitto confiscabile, occorre l'esistenza di un incremento patrimoniale in favore dell'ente che peraltro si ponga in rapporto di derivazione causale con il fatto di reato contestato, nel caso di specie, con il reato di false comunicazioni sociali. Osservava pertanto che l'utile non distribuito e destinato a riserva per gli anni 2010 e 2011 non rappresentava propriamente un incremento patrimoniale discendente dalla commissione del reato, ma al più un mero vantaggio economico.
La questione di diritto
La Cassazione decide che il ricorso è infondato.
In ordine al contenuto della prima doglianza il Collegio giudicante, in continuità applicativa al principio già fissato dalla sentenza n. 33774/2015 (dep. 30/07/2015, Crespi e altri, Rv. 264868), evidenzia come la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, eliminando l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni" e inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai "fatti materiali non rispondenti al vero", ha determinato una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente.
In posizione centrale delle condotte tipiche vi è ancora il concetto di "fatti materiali", ma a differenza della previgente formulazione è venuto meno l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni". I "fatti materiali" oggetto della falsità nella forma commissiva od omissiva devono essere connotati sul piano oggettivo della tipicità dal requisito della "idoneità a indurre in errore", e sul piano soggettivo della suddetta tipicità, dal requisito della "consapevolezza" e dalla finalità di conseguire un "ingiusto profitto".
Mentre la precedente formulazione della norma individuava:
- a) la condotta attiva nell'esposizione di "fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni",
- b) la condotta omissiva nella mancata indicazione di "informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge",
la nuova norma prevede:
- a) per la condotta attiva, "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero",
- b) per quella omissiva "fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge".
In definitiva:
1) la modalità omissiva della condotta è stata uniformata a quella attiva e deve essere indirizzata su "fatti materiali" e non più su "informazioni";
2) per entrambe le modalità esecutive è stato introdotto il requisito della "rilevanza" dei fatti sui quali incide il falso;
3) per la modalità attiva, si registra la completa espunzione della qualificazione dei fatti come "ancorché oggetto di valutazioni".
La Corte osserva che è proprio l'ultimo degli aspetti indicati, ossia la soppressione del riferimento alle "valutazioni", che ha attirato l'attenzione dei primi commentatori della riforma.
L'eliminazione dell'espressione indicata è stata letta nel senso della privazione di rilevanza penale delle falsità ricadenti su valutazioni estimative, con un effetto sostanzialmente abrogativo di una parte consistente della fattispecie incriminatrice.
Secondo la Cassazione il dato testuale, il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, nonché la circostanza che nell'art. 2638 cod. civ[1]., non sia stato eliminato il riferimento alle valutazioni, sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi.
Il fatto che il riferimento alle valutazioni sia stata cancellato dal testo degli artt. 2621 e 2622 e invece mantenuto in quello dell'art. 2638 c.c. sarebbe chiaramente dimostrativo di un intento legislativo mirato ad escludere gli effetti sostanziali dell'espressione con specifico ed esclusivo riguardo al reato di false comunicazioni sociali e dunque a sottrarre a tale incriminazione i fatti valutativi.
Il Collegio fa notare che la locuzione "fatti materiali non rispondenti al vero" era stata utilizzata dal legislatore della riforma del 2002, il quale, pure ricorrendo in maniera equivoca alla congiunzione "ancorché", aveva espressamente precisato che oggetto dei "fatti materiali" potessero essere anche le valutazioni. Considerato, poi, che espresso riferimento alle "valutazioni estimative" si era fatto prevedendo le soglie di punibilità al comma quarto dell'art. 2621 e al comma ottavo dell'art. 2622, ne consegue che l'adozione dello stesso riferimento ai "fatti materiali non rispondenti al vero", senza alcun richiamo alle valutazioni, nonché il dispiegamento della formula citata anche nell'ambito della descrizione della condotta omissiva, consente di ritenere ridotto l'ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti "falsi valutativi".
In passato, in merito all'esatto contenuto da attribuire al testo previgente della norma nel suo richiamo ai "fatti materiali ancorché oggetto di valutazioni", si era sostenuto come la previsione di materialità avrebbe di per sé escluso le valutazioni dai fatti punibili, se il successivo e per certi aspetti contraddittorio accenno normativo alle valutazioni stesse non le avesse espressamente reintrodotte nell'ambito operativo della condotta. In realtà, il riferimento normativo all'esposizione di "fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni" era tutt'altro che contraddittorio per cui il falso punibile poteva ricadere anche su dati contabili costituenti il risultato di valutazioni, purché le stesse fossero state svolte partendo da fatti materiali, riferiti a realtà economiche oggettivamente determinate. Ne consegue che la tesi della superfluità dell'accenno normativo alle "valutazioni" non è pertanto più sostenibile.
Ne discende, ancora, come ulteriore corollario del ragionamento che la "soppressione" di quel riferimento normativo ha effettivamente ridotto l'estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi.
L'interpretazione del termine "materiale" quale sinonimo di "rilevante", trova un ostacolo difficilmente superabile proprio nella riforma del 2015, e in particolare nella precisazione per la quale la condotta deve riguardare "fatti", oltre che "materiali" anche "rilevanti".
Le voci direttamente riferibili a fatti materiali sono tutt'altro che esigue. Il citato e recente pronunciamento giurisprudenziale (Cass., 16 giugno 2015, Crespi) ne espone un catalogo generale ampio, che sebbene non abbia la pretesa di essere esaustivo comprende:
- i ricavi falsamente incrementati,
- i costi non appostati,
- le false attestazioni di esistenza di conti bancari,
- l'annotazione di fatture emesse per operazioni inesistenti,
- l'iscrizione di crediti non più esigibili per l'intervenuto fallimento dei debitori in mancanza di attivo,
- la mancata svalutazione di una partecipazione in una controllata della quale sia stato dichiarato il fallimento,
- l'omessa indicazione della vendita o dell'acquisto di beni,
- l'omessa indicazione dell'esistenza di un debito per il quale sia in atto un contenzioso nel quale la società è soccombente,
- l'iscrizione all'attivo di crediti derivanti da contratti fittizi, da fatture relative ad operazioni inesistenti o da fatture da emettere in violazione dei criteri sulla competenza.
D'altra parte, il falso valutativo, inteso come associazione di un "valore numerico" ad una determinata "realtà", può presentarsi come:
- a) risultato di una valutazione,
- b) rappresentazione difforme dal vero della stessa realtà materiale.
Ma se partiamo dalla considerazione che il bene giuridico tutelato dalla norma è la trasparenza, la fiducia dei terzi nella veridicità delle rappresentazioni contenute nelle comunicazioni sociali e di conseguenza si tratta di un delitto di pericolo concreto, che non necessita il verificarsi di un danno per i creditori o i soci, dobbiamo chiederci cosa accade quando il valore numerico sia esposto con modalità che ne escludano la percepibilità come esito di una valutazione e siano pertanto idonee ad indurre in errore i terzi sulla stessa consistenza fisica del dato materiale.
La risposta della Cassazione a questa domanda è nel senso che il falso, cadendo sulla consistenza fisica del dato materiale, integri, anche nella nuova formulazione, la fattispecie incriminatrice. A questa presa di posizione occorre necessariamente dare il significato per cui il falso valutativo, per rientrare nel recinto penale, deve consistere nella rappresentazione di un fatto non vero.
Analisi del caso concreto
- Primo motivo di doglianza
Venendo al caso ipotizzato nel capo di imputazione, la Cassazione osserva che nel bilancio 2010 della banca oggi incorporata (Banca Popolare di Marostica) il valore delle quote di partecipazione acquisite nella Banca di Treviso era stato fissato nel prezzo di acquisto delle quote, e cioè nel valore di 38 milioni di Euro; nel successivo bilancio del 2011 tale valore era stato ridotto ad Euro 20,5 milioni di Euro, iscrivendo contemporaneamente il valore di 18 milioni di Euro quale credito nascente nei confronti della cessionaria delle quote (la Carife) in seguito ad una svalutazione prevista in una clausola dello stesso contratto di cessione delle quote; nel bilancio 2012 il valore delle quote di partecipazione al capitale sociale della Banca di Treviso era stato ulteriormente ridotto ad Euro 7,72 milioni di Euro sulla base dell'indicazione fornita dall'arbitratore KPMG.
Alcuni elementi venivano ritenuti indispensabili per dirimere la questione:
1) nonostante il valore di acquisto della partecipazione societaria per Euro 38 milioni corrispondesse al valore indicato nel contratto di cessione ed al prezzo effettivamente pagato dalla Banca Popolare di Marostica, la Banca di Treviso (delle cui quote qui si tratta) era fortemente indebitata (come emerge dalla relazione della G.d.F. richiamata in atti);
2) la Banca Popolare di Marostica, al momento della redazione del bilancio 2010, aveva avuto contezza della predetta situazione di forte indebitamento, tanto ciò è vero che in data 28/01/2011 (e dunque, in un momento che deve ritenersi cronologicamente precedente al deposito del bilancio d'esercizio 2010) aveva inviato a Carife una lettera di contestazione nella quale indicava "un aggiustamento in diminuzione del prezzo" ad Euro 18.118.745;
3) nella successiva data del 09/02/2011 la Carife aveva risposta alla detta missiva, non approvando le modalità formali di contestazione e proponendo un aggiustamento del prezzo pari ad Euro 400.000; che, dunque, si apriva un contenzioso tra la società cedente (Carife) e la cessionaria (Banca Popolare di Marostica) in ordine all'effettivo valore di vendita della partecipazione nella Banca di Treviso, contenzioso sfociato nella nomina di un arbitratore;
4) anche il valore di partecipazione iscritto nei bilanci 2011 e 2011 non poteva considerarsi come un "credito certo", quanto piuttosto come una mera attività potenziale, come peraltro correttamente ritenuto dal Pm e come recepito anche nel provvedimento impugnato.
Sulla base di questi elementi la Corte concludeva che le condotte materiali descritte nel capo di imputazione costituissero "fatti materiali non rispondenti al vero" punibili come false comunicazioni sociali anche nella nuova veste normativa assunta dall'art. 2621 c.c.. In altri termini, la condotta posta in essere non può in alcun modo essere ricondotta ad un falso valutativo atteso che nel caso di specie si è assistito, nei tre bilanci compresi tra il 2010 ed il 2012, ad appostazioni in bilancio di valori oggettivamente e palesemente non corrispondenti al dato contabile e dunque falsi.
- Secondo motivo di doglianza
Anche il secondo motivo di doglianza è stato ritenuto infondato. La Corte ritiene condivisibile il ragionamento del tribunale impugnato in ordine alla esistenza di un profitto confiscabile e individuato nella misura dell'utile non distribuito e destinato a riserva per gli anni 2010 e 2011.
La non corretta iscrizione in bilancio - sopra descritta - ha comportato la chiusura degli esercizi in contestazione in utile anziché in perdita, e di conseguenza la Banca Popolare di Marostica ha potuto disporre di risorse per lo svolgimento della sua attività che diversamente avrebbe dovuto utilizzare per ripianare le perdite accumulate e pertanto il detto apporto non può che essere considerato come un apporto effettivo e non già meramente potenziale o contabile, e come tale, in rapporto di causalità diretta con la commissione del reato.
Detto in altre parole, se le iscrizioni in bilancio fossero state correttamente eseguite, i bilanci di esercizio qui in esame si sarebbero conclusi in perdita, ciò significando che la Banca Popolare di Marostica ha potuto contare su una disponibilità di risorse utili per la sua attività che diversamente non sarebbe stata presente.
- La tesi contraria sostenuta con la sentenza del 12 gennaio 2016 n. 890
Abbiamo già detto che con la sentenza del 22 febbraio 2016 n. 6916 si è stabilito che la soppressione della locuzione "ancorché oggetto di valutazione" ha ridotto l'estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi.
Con la sentenza del 12 gennaio 2016 n. 890 si è invece ritenuto che la locuzione in questione è una tipica proposizione "concessiva" introdotta da congiunzione (ancorchè) notoriamente equipollente ad altre tipiche e similari ("sebbene", "benchè", "quantunque", "anche se" et similia) e quindi il suo precipuo significato e funzione sarebbe quello di precisare che nei "fatti materiali" oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, sono da intendersi ricompresi anche quelli oggetto di valutazione.
L'elisione di una proposizione siffatta non può autorizzare la conclusione che si sia voluto immutare l'ambito sostanziale della punibilità del falsi materiali, che, invece, resta impregiudicata, continuando a ricomprendere, come in precedenza, anche i fatti oggetto di mera valutazione.
La sentenza precisa anche altri concetti che prendiamo ben volentieri in prestito:
1) la qualificazione "materiale" si riconnette al concetto tecnico di "materialità" che, da tempo, gli economisti anglo-americani hanno adottato come criterio fondamentale di redazione dei bilanci di esercizio ed anche della revisione: il termine è, sostanzialmente, sinonimo di "essenzialità", nel senso che, nella redazione del bilancio, devono trovare ingresso - ed essere valutati - solo dati informativi "essenziali" ai fini dell'informazione,
2) l'aggettivo "rilevante" è di stretta derivazione dal lessico della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di rilevanza sancito dall'art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE (relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese) che definisce "rilevante" lo stato dell'informazione quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell'impresa, con la precisazione che la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe,
3) fatto non può essere inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento del mondo fenomenico, quanto piuttosto nell'accezione tecnica, certamente più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare all'esterno.
I fatti possono dirsi essenziali e rilevanti solo nella misura in cui riescano a rendere una rappresentazione corretta e veritiera della situazione economico-finanziaria della società, in diretta connessione con il fine primario di rientrare responsabilmente le scelte degli operatori (pubblico, risparmiatori, istituti di credito, soci).
Il falso c.d. valutativo o qualitativo è la "falsa rappresentazione" del fatto oggetto di valutazione. Considerato che il bilancio si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, non può, allora, dubitarsi che nella nozione di "rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti" (da intendere nelle accezioni anzidette) vadano ricompresi anche e soprattutto tali valutazioni.
La rappresentazione di un fatto è certamente permeato da un indefettibile coefficiente di soggettività e, dunque, di opinabilità. Tuttavia, quando la rappresentazione valutativa debba parametrarsi a criteri predeterminati dalla legge ovvero da prassi universamente accettate, l'elusione di quei criteri costituisce falsità nel senso di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità "convenzionale" conseguibile solo con l'osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltreché di certezza e trasparenza.
In definitiva la Corte conclude che il mancato rispetto di tali parametri comporta la falsità della "rappresentazione valutativa", punibile ai sensi del nuovo art. 2621 c.c., nonostante la soppressione dell'inutile inciso ancorché oggetto di valutazioni.
Più in generale, considerata l'esistenza della clausola generale di cui all'art. 2423 c.c., comma 2 che impone di redigere il bilancio con chiarezza, veridicità e correttezza; tenuto conto della prescrizione dell'art. 2428 c.c., comma 1, secondo cui il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un'analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell'andamento e del risultato della gestione, non si può che concludere che le false valutazioni di dati contabili, sono sicuramente capaci di influenzare, negativamente, le scelte degli utilizzatori del bilancio.
La redazione del bilancio
Appare opportuno richiamare alcuni concetti - immanenti nel nostro sistema giuridico - che ci offrono spunto per dare un'interpretazione sistematica (e non solo esclusivamente letterale) alla questione dei falsi valutativi. Nella redazione del bilancio devono essere soddisfatte alcune condizioni richieste dal Codice Civile che consentono di ottemperare al principio del quadro fedele. Il bilancio, nelle sue tre componenti essenziali dello stato patrimoniale, del conto economico e della nota integrativa, deve essere redatto con chiarezza, veridicità e correttezza, deve rappresentare la situazione patrimoniale e finanziaria della società e indicare il risultato economico dell'esercizio. In particolare:
- la chiarezza della redazione è richiesta espressamente in quanto il bilancio è uno strumento atto a comunicare e ad informare. Essendo destinato a terzi, il bilancio deve essere comprensibile e trasparente, le singole poste devono essere indicate in modo che i potenziali "lettori" possano trarne informazioni fruibili;
- la veridicità del bilancio è un concetto che non va inteso nel senso dell'oggettività assoluta, si pensi alle difficoltà nel quantificare esattamente poste come gli stati di avanzamento lavori, l'entità dei crediti, le scorte;
- la correttezza è legata alla veridicità e si concretizza nel rispetto delle norme giuridiche e delle regole tecnico - contabili;
- se le disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta del bilancio sarà obbligatorio fornire le informazioni necessarie perché il bilancio risulti veritiero e corretto;
- se l'applicazione di una o più disposizioni di legge rende il bilancio non veritiero o non corretto, tali disposizioni non vanno applicate. La nota integrativa dovrà motivare la deroga e dovrà indicare l'influenza che essa ha sul bilancio. Gli eventuali utili derivanti dalla deroga devono essere iscritti in una riserva non distribuibile.
Nella redazione del bilancio devono essere osservati anche i princìpi di prudenza, continuità e competenza. In particolare l'articolo 2423 bis del codice civile, stabilisce che nella redazione del bilancio devono essere osservati i seguenti ulteriori princìpi:
- la "valutazione" delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell'elemento dell'attivo o del passivo considerato;
- si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura dell'esercizio;
- si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell'esercizio, indipendentemente dalla data dell'incasso o del pagamento;
- si deve tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell'esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo;
- gli elementi eterogenei ricompresi nelle singole voci devono essere valutati separatamente;
- i criteri di "valutazione" non possono essere modificati da un esercizio all'altro. Deroghe a questo principio sono consentite in casi eccezionali. La nota integrativa deve motivare la deroga e indicarne l'influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico.
Come si può facilmente intuire dalla sommaria elencazione di cui sopra, la redazione del bilancio deve essere finalizzata a presentare un quadro fedele della situazione patrimoniale e finanziaria della società nonché indicare il risultato economico dell'esercizio, il tutto ovviamente a garanzia dei terzi ma anche della stessa società. Ciò ovviamente contrasta - per definizione - con la possibilità di ritenere "lecito" un falso valutativo che offuschi la chiarezza, la veridicità, la correttezza del bilancio o se vogliamo il quadro fedele della situazione generale della società.
Le valutazioni delle partecipazioni
In merito alle valutazioni delle partecipazioni occorre fare riferimento innanzitutto a quanto previsto dall'art. 2426[2] secondo il quale le partecipazioni immobilizzate sono iscritte al costo di acquisto o di costituzione, comprensivo dei costi accessori. Per quanto riguarda il caso di specie oggetto di pronuncia da parte della Cassazione, è utile fare riferimento al comma 1 n. 3 del suddetto articolo del c.c. il quale letteralmente prevede:
«l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore; questo non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata».
In tale contesto, di sicuro aiuto è il principio contabile n. 21 del 26 giugno 2014 emanato dall'OIC (Organismo Italiano di Contabilità)[3], che concerne le partecipazioni immobilizzate nel caso di perdita durevole di valore.
La perdita durevole di valore è determinata confrontando il valore di iscrizione in bilancio della partecipazione con il suo valore recuperabile, determinato in base ai benefici futuri che si prevede affluiranno all'economia della partecipante. La prima fase del processo valutativo che conduce alla determinazione del valore recuperabile è costituita da un'analisi delle condizioni economico-finanziarie della partecipata volta ad accertare se le perdite di valore sofferte dalla partecipata non siano episodiche o temporanee, bensì strutturali e capaci di intaccarne la consistenza patrimoniale. Tali perdite sono riconducibili a situazioni negative interne alla società stessa o esterne ad essa, oppure ad una combinazione di fattori interni ed esterni.
Esempi di situazioni interne alla società che possono condurre ad una perdita di valore possono essere:
- perdite operative divenute fisiologiche, derivanti da una struttura del ciclo costi/ricavi che cessa di essere remunerativa;
- eccesso di costi fissi, non riducibili nel breve periodo, rispetto al volume d'affari;
- obsolescenza tecnologica degli impianti o dei processi produttivi dell'impresa;
- un perdurante stato di tensione finanziaria al quale non si possa porre rimedio e che divenga eccessivamente oneroso per la società.
Esempi di fattori esterni alla società possono invece essere:
- crisi del mercato in cui opera l'impresa con previsioni di assestamento dello stesso in direzione opposta a quella auspicata dall'impresa;
- sostanziale ribasso dei prezzi di vendita dei prodotti non bilanciato dall'adeguamento dei costi di produzione e vendita;
- nuove leggi e regolamentazione che incidono negativamente sulla redditività dell'impresa; perdita di quote di mercato a favore di imprese concorrenti;
- abbandono da parte del mercato dei prodotti dell'impresa a favore di prodotti alternativi.
Una perdita di valore è durevole quando le ragioni che l'hanno causata non possono essere rimosse in un breve arco temporale, cioè in un periodo così breve da permettere di formulare previsioni attendibili e basate su fatti obiettivi e ragionevolmente riscontrabili. Se invece la partecipata ha predisposto piani e programmi tesi al recupero delle condizioni di equilibrio economico-finanziario, con caratteristiche tali da far fondatamente ritenere che la perdita di valore della partecipazione abbia carattere contingente, questa può definirsi non durevole.
Da quanto appena detto risulta chiaro che la condotta posta in essere dall'istituto di credito non possa essere ricondotta al concetto di valutazione o di stima. Corretta la svalutazione delle quote di partecipazione, ma falsa la rappresentazione di un credito che in sostanza andava a compensare tale svalutazione lasciando inalterato il patrimonio della società che pertanto conseguiva un utile d'esercizio gonfiato. La doverosa svalutazione delle quote di partecipazione, in ossequio al principio contabile del quadro fedele, può ed anzi deve avere luogo nel caso in cui la perdita di valore è durevole nel senso pocanzi detto.
Nel caso concreto, si è accertato che la Banca Popolare di Marostica era a conoscenza che la Banca di Treviso era fortemente indebitata tanto è vero che in data 28/01/2011 aveva inviato a Carife una lettera di contestazione nella quale indicava "un aggiustamento in diminuzione del prezzo" ad Euro 18.118.745; anche il valore di partecipazione iscritto nei bilanci 2011 e 2011 non poteva considerarsi come un "credito certo", quanto piuttosto come una mera attività potenziale. Sapeva, in altri termini, che il valore effettivo, reale, delle quote di partecipazione (e del credito) non era correttamente indicato in bilancio: da qui il falso materiale punibile, si badi bene, sia con la vecchia norma sia con la nuova.
Considerazioni conclusive
Il tema delle valutazioni contabili è delicato, se non altro perché riguarda l'economia del paese e milioni di imprenditori onesti che hanno tutto il diritto di sapere in anticipo cosa - esattamente - è penalmente rilevante. Proverò a rassicurare gli imprenditori onesti che sono sicuramente la maggioranza. Per mio conto la questione va risolta partendo dall'elemento soggettivo e oggettivo del reato. Si consideri:
1) Le false comunicazioni sociali sono state configurate come un delitto di conseguenza è necessario il dolo specifico (elemento soggettivo);
2) La condotta deve essere consapevole e concretamente idonea a indurre in errore i terzi (elemento oggettivo);
3) La redazione del bilancio impone l'effettuazione di valutazione e stime di poste al fine di attribuire un valore numerico più corretto possibile al valore reale e attuale del bene mobile o immobile, materiale o immateriale;
4) Le valutazioni non sono del tutto arbitrarie essendo vincolate strettamente a tutta una serie di principi (chiarezza, veridicità, correttezza) che devono investire la redazione del bilancio il quale deve rappresentare un quadro fedele della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società. Tanto è vero che se le disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta del bilancio sarà obbligatorio fornire le informazioni necessarie e se l'applicazione di una o più disposizioni di legge rende il bilancio non veritiero o non corretto, tali disposizioni non vanno applicate (quindi si va oltre la legge).
Il punto, allora, è che una valutazione, per sua stessa natura influenzata dalla personalità di chi la esegue, può essere errata:
- a) per imperizia, imprudenza o negligenza. In tal caso non si vede come tale valutazione possa determinare una responsabilità penale ex artt. 2621 o 2622 c.c. visto che entrambi i reati sono configurati come delitti;
- b) premeditatamente al fine di annacquare il bilancio e fornire quindi un quadro diverso (migliore o peggiore) ma comunque infedele della propria impresa. In tal caso la valutazione, dolosamente errata, può costituire un fatto materiale rilevante (ex art 2621) ovvero un fatto di lieve entità (ex art. 2621-bis) ovvero un fatto di particolare tenuità e come tale non punibile (ex art 2621-ter).
Il soggetto attivo del reato sa quando sta effettuando una valutazione artatamente volta a falsificare il bilancio. Lui sa che nelle valutazioni delle poste di bilancio deve essere prudente ex art. 2423-bis[4] del c.c.; non vi è altro da aggiungere.
Il falso valutativo, in definitiva, esiste ancora nonostante sia stata eliminata la locuzione "ancorché oggetto di valutazione" dal corpo dell'art. 2621 c.c.
Occorre però che l'errata stima della posta di bilancio rientri nella cornice di tutti gli elementi strutturali del reato:
- Bene giuridico protetto
La trasparenza, o la fiducia dei terzi nella veridicità delle rappresentazioni contenute nelle comunicazioni sociali;
- Soggetti attivi
Sono gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori;
- Elemento soggettivo
Si tratta del dolo specifico caratterizzato dal fine di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto;
- Elemento oggettivo
La condotta può consistere nel:
- a) esporre fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero,
- b) nell'omettere fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene,
in modo consapevole e concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
- Soggetti passivi
I destinatari delle comunicazioni, gli "ingannabili" cioè i soci o il pubblico.
La sentenza 6916/2016 in commento ha stabilito che la soppressione della locuzione "ancorché oggetto di valutazioni" ha effettivamente ridotto l'estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi.
Non sono d'accordo con l'affermazione dei giudici secondo cui la soppressione della citata locuzione abbia ridotto l'estensione incriminatrice della norma.
Ad onor del vero vi è da dire che la Corte, esaminando gli altri elementi che erano venuti alla luce dalle indagini compiute dalla Guardia di Finanza (es. il forte indebitamento della Banca di Treviso delle cui quote si trattava) concludeva che le condotte materiali descritte nel capo di imputazione costituissero "fatti materiali non rispondenti al vero" punibili come false comunicazioni sociali anche nella nuova veste normativa assunta dall'art. 2621 c.c..
Si era cioè sostenuto che la condotta posta in essere non potesse in alcun modo essere ricondotta ad un "falso valutativo" atteso che nel caso di specie si era assistito ad appostazioni in bilancio di valori oggettivamente e palesemente non corrispondenti al dato contabile e dunque falsi.
Questa conclusione fa ritenere che in realtà tra le due sentenze in premessa (6916/2016 e 890/2016) non vi sia poi una vera contraddizione, ovvero una diversa lettura delle modifiche normative in oggetto.
Per concludere, io penso che una valutazione "consapevolmente errata" può costituire un "fatto materiale" e che in taluni casi ciò possa essere idoneo a indurre i terzi in errore. Quando questo si verifica e il soggetto attivo agisce al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, non vedo come possa mettersi in dubbio che si sia in presenza del reato di false comunicazioni sociali, salvo quanto previsto dall'art. 2621-ter.
Che una valutazione volutamente errata possa costituire fatto materiale e quindi integrare reato era vero prima ed è vero adesso, nonostante sia stata eliminata la più volte richiamata locuzione che, quindi, aveva il solo scopo di specificare e chiarire che anche con una valutazione o una stima dolosamente errata può falsarsi un bilancio.
D'altra parte non possiamo fare finta che non esista un sistema giuridico di norme volto a salvaguardare la bontà dei bilanci e l'affidamento dei terzi nelle comunicazioni sociali.
Valga a dirimere ogni dubbio la norma (art. 2423 c.c.)[5] la quale stabilisce che se l'applicazione di una o più disposizioni di legge rende il bilancio non veritiero o non corretto, tali disposizioni non vanno applicate.
Note
[1] Art. 2638 c.c. - Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza.
Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.
[2] Art. 2426 c.c. - Criteri di valutazioni.
Nelle valutazioni devono essere osservati i seguenti criteri:
1) le immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione. Nel costo di acquisto si computano anche i costi accessori. Il costo di produzione comprende tutti i costi direttamente imputabili al prodotto. Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi;
2) il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Eventuali modifiche dei criteri di ammortamento e dei coefficienti applicati devono essere motivate nella nota integrativa;
[3] In data 20 agosto 2014 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 11 agosto 2014, n. 116, di conversione del decreto legge 91/2014, che riconosce il ruolo e le funzioni dell'OIC.
[4] Art. 2423-bis c.c. - Princìpi di redazione del bilancio.
Nella redazione del bilancio devono essere osservati i seguenti princìpi:
1) la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell'elemento dell'attivo o del passivo considerato;
[5] Art. 2423 c.c. - Redazione del bilancio.
- Se, in casi eccezionali, l'applicazione di una disposizione degli articoli seguenti è incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta, la disposizione non deve essere applicata. La nota integrativa deve motivare la deroga e deve indicarne l'influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico. Gli eventuali utili derivanti dalla deroga devono essere iscritti in una riserva non distribuibile se non in misura corrispondente al valore recuperato.
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