di Marina Crisafi - Non c'è nessuna attenuante per chi pratica l'eutanasia a un familiare ammalato. Si tratta di omicidio. Ad affermarlo è la Cassazione, con una sentenza appena resa nota, convalidando la condanna a 9 anni e 4 mesi inflitta con rito abbreviato a un uomo accusato di omicidio aggravato nei confronti della moglie.
L'imputato, un mormone americano residente ad Alessandria, aveva ucciso la consorte - affetta da oltre 10 anni da una grave forma di artrite reumatoide degenerativa che la costringeva a letto - con un coltello da cucina, dopo averle somministrato una pesante dose di sedativo.
Poi si era presentato dai carabinieri a denunciare il fatto, spiegando di avere agito per "finalità altruistica" per porre fine alle sofferenze della donna e chiedendo le attenuanti dato che la sua azione era spinta da "motivi di particolare valore sociale".
Ma per la prima sezione penale ogni richiesta è inutile.
Oltre a condividere la motivazione della corte di merito che "aveva ravvisato la contestuale esistenza di un parallelo intento dell'uomo di non essere più obbligato ad apprestare l'assistenza continua al coniuge", il Palazzaccio ha evidenziato, riguardo all'attenuante, che i "motivi di particolare valore sociale" devono corrispondere a valori etici o sociali, riconosciuti come preminenti dalla collettività ed intorno ai quali si realizza un consenso diffuso. Deve trattarsi, cioè, scrivono i giudici di piazza Cavour, "di principi generalmente approvati dalla società, in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire l'antisocialità dell'azione criminale".
Ma così non è perché le discussioni "tuttora esistenti sulla condivisibilità dell'eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea".
Da qui la bocciatura del ricorso e la conferma della condanna per omicidio.
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