Avv. Paolo Accoti - Il regolamento di condominio allegato ai rispettivi atti di compravendita, quando include tra i beni comuni il sottosuolo sul quale sorge uno dei fabbricati condominiali, quand'anche fisicamente separato dall'edificio principale, è titolo idoneo a far ricomprendere lo stesso tra i beni in proprietà indivisa tra tutti i condòmini.
Individuato il titolo dal quale far discernere il diritto di proprietà del bene per lo stesso opera la previsione di cui all'art. 1117 c.c., che indica tra quelli di proprietà comune, tra gli altri, anche il terreno sul quale è edificato l'intero fabbricato ivi compresa la parte immediatamente sottostante.
A tal proposito l'utilizzo da parte del predetto art. 1117 cc. del termine "suolo" ha un significato più esteso rispetto all'analoga locuzione adoperata dall'art. 840 c.c. ("La proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene …").
Infatti, dall'esame dell'art. 1117 c.c., coordinato con il disposto di cui al predetto art. 840 c.c., se ne ricava che il sottosuolo deve essere identificato in quella zona profonda, esistente al di sotto della superficie, che costituisce la base sulla quale sorge l'edificio.
Quand'anche lo stesso non sia esplicitamente richiamato tra i beni comuni, occorre tener presente che l'articolo 1117 c.c. contiene una indicazione meramente esemplificativa e, quindi, non esaustiva di detti beni, pertanto anche tale bene si presume collettivo in mancanza di un titolo contrario che assegni la proprietà esclusiva ad uno solo dei partecipanti alla comunione.
Ciò posto ne discende naturalmente sia il divieto di escavazione - fatto salvo il consenso degli altri condòmini - che la sua annessione alla proprietà esclusiva dei singoli, evenienza che comporterebbe la lesione del concomitante diritto di proprietà degli altri partecipanti nonché la perdita del paritario uso.
Tanto ritiene la II sezione civile della Corte di Cassazione, Presidente dott. V. Mazzacane, Relatore dott. A. Scarpa, nella sentenza n. 6154, pubblicata in data 30 marzo 2016.
Il giudizio sottoposto al vaglio del Supremo Collegio prendeva le mosse dal ricorso possessorio con il quale un Condominio conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale del capoluogo lombardo sia la società utilizzatrice di una porzione immobiliare sita al pian terreno dell'edificio condominiale - giusto contratto di locazione finanziaria - che la proprietaria concedente l'immobile.
Assumeva il ricorrente che l'utilizzatrice dell'immobile aveva iniziato dei lavori di scavo del sottosuolo, senza autorizzazione condominiale, pertanto, ne chiedeva l'immediata sospensione e la reintegrazione nel possesso del Condominio, con il ripristino dello stato dei luoghi e il risarcimento del danno.
Il Tribunale di Milano dopo aver rigettato l'istanza cautelare - atteso il completamento dei lavori - accoglieva nel merito la domanda disponendo il ripristino dello status quo ante.
Sull'appello proposto dall'utilizzatore, la Corte d'Appello di Milano rigettava il gravame sulla scorta dell'art. 1 del regolamento condominiale per il quale: "formano oggetto del presente regolamento di condominio gli stabili di Milano, via …., nonché il terreno sul quale i fabbricati sono eretti e il cortile annesso al mappale 34" e del successivo art. 2 per cui: "costituiscono proprietà comune in modo inalienabile e indivisibile a tutti i condomini e devono essere mantenuti efficienti a spese comuni il terreno sul quale sorgono gli edifici, le foro fondazioni, strutture portanti, il cortile al mappale 34".
Il predetto regolamento risultava esplicitamente accettato dalle parti in giudizio, siccome allegato ai rispettivi atti di acquisto, pertanto, il sottosuolo sul quale poggia l'edificio dei convenuti, nonostante fosse separato dall'edificio condominiale principale, doveva essere comunque considerato parte comune, in ragione dell'esplicita previsione contrattuale.
Ricorre per la cassazione della sentenza l'utilizzatore del fabbricato, affidando il gravame a due motivi tra cui l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per mancanza di prova in merito al possesso del sottosuolo in capo al Condominio, ritenuto dalla Corte d'Appello sussistente solo dal mero esame del titolo di proprietà del suolo e del sottosuolo.
La Suprema Corte evidenzia come il giudice di merito ha correttamente ritenuto, "ad colorandam possessionem", che il sottosuolo del fabbricato oggetto di contestazione, stante il suo rapporto di accessorietà con l'immobile principale e l'inglobamento dello stesso tra le parti comuni disposto dal regolamento, fosse da ritenersi esaustivo ai fini del compossesso del bene oggetto di causa.
Ciò posto, osserva che gli artt. 1 e 2 del regolamento condominiale riproducono la regola dettata dall'art. 1117 c.c.
Ed invero: "Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell'art. 1117 c.c., è non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l'intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso. Il termine "suolo", adoperato dall'art. 1117 citato, assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall'art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all'aria. Piuttosto, l'art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l'art. 840 dello stesso codice, implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiaria che è alla base dell'edificio (seppure non menzionato espressamente dall'elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale in mancanza di un titolo, che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini".
Pertanto, stabilita la condominialità del bene, non si può far altro che applicare il principio più volte espresso dalla Corte di Cassazione, per cui: "nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all'escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell'edificio, privandoli dell'uso e del godimento ad essa pertinenti" (Cass. civ., 13.07.2011, n. 15383; Cass. civ., 2.03.2010, n. 4965; Cass. civ., 24.10.2006, n. 22835; Cass. civ., 27.07.2006, n. 17141; Cass. civ., 9.03.2006, n. 5085; Cass. civ., 28.04.2004, n. 8119; Cass. civ., 18.03.1996, n. 2295; Cass. civ., 23.12.1994, n. 11138; Cass. civ., 11.11.1986, n. 6587).
Ed invero, se risulta senz'altro consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c. un utilizzo più intenso del bene comune da parte del singolo condomino - a condizione che un siffatto uso non escluda il diritto degli altri condòmini di farne parimenti uso e che non ne alteri la destinazione del bene medesimo - non appare di contro possibile uno sfruttamento esclusivo.
Fermo restando che, con il consenso unanime dei partecipanti alla comunione, l'assemblea può anche deliberare in merito all'utilizzo individuale del bene comune in virtù dell'esplicita previsione dell'art. 1108, III co. c.c. (Cfr.: Cass. civ. Sez. II, 16.01.2014, n. 821), potendo anche spingersi oltre e disporre l'alienazione del fondo comune, la rinuncia o la concessione di servitù, delle locazioni superiori ai nove anni e, in generale, nelle transazioni aventi ad oggetto negozi giuridici con carattere dispositivo dei beni comuni (Cfr.: Cass. civ. Sez. II, 24.02.2006, n. 4258).
Avv. Paolo Accoti
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Cass. civ. Sez. II, 30.03.2016, n. 6154
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