di Lucia Izzo - I Consigli disciplinari degli ordini professionali devono garantire a chi è accusato di aver violato norme deontologiche di essere ascoltato in udienza pubblica anche nel procedimento volto all'emanazione di misure cautelari.
In caso contrario, si incorre in una violazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sul diritto ad un equo processo: secondo la norma, infatti, "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta".
Lo ha stabilito la Corte Europea dei diritti nell'uomo, quarta sezione, nella sentenza "Helmut Blum v. Austria" (qui sotto allegata, in lingua ingese) risalente allo scorso 5 aprile.
La Corte si è pronunciata sul ricorso di un avvocato austriaco ritenuto responsabile per "doppia rappresentanza", ossia per aver svolto attività professionale nei confronti di due imputati per traffico di esseri umani che si erano accusati vicendevolmente.
Sollecitato dal Tribunale di Linz, il Consiglio dell'ordine degli avvocati aveva avviato nei confronti del legale un procedimento disciplinare e, in via cautelare e senza un preventivo ascolto dell'avvocato, aveva provveduto a revocargli il diritto di rappresentare legalmente i clienti nel distretto.
Ciò era avvenuto prima della chiusura del processo penale pendente a carico dell'uomo dinanzi ai giudici competenti, poi conclusosi con l'assoluzione.
Innanzi ai giudici di Strasburgo, il professionista evidenzia che i provvedimenti disciplinari relativi all'esercizio della professione rientrano nell'ambito delle controversie di carattere civile, con contestuale applicazione dell'art. 6 della Convenzione anche quando vengono applicate misure cautelari.
La Corte, confermando quanto richiesto, si spinge oltre, abbandonando l'approccio che impediva di applicare automaticamente l'art. 6 ai procedimenti cautelari.
Sia il procedimento principale che quello cautelare dovrebbero essere considerati "civili" secondo la nozione fornita dalla norma e, in questi casi specifici, l'indipendenza o l'imparzialità del Tribunale o del giudice che si occupa della faccenda, rappresenta uno strumento di salvaguardia indispensabile e inalienabile che deve essere applicato laddove compatibile con la natura e l'obiettivo del procedimento cautelare in esame.
L'onere di stabilire procedure specifiche di salvaguardia resta a carico del Governo, in vista dell'obiettivo del procedimento in un determinato caso, senza pregiudicare l'effettività della misura cautelare.
Va condiviso quando affermato dal Governo, secondo cui la misura tutela un interesse pubblico e la reputazione della professione legale (e dell'amministrazione della giustizia stessa), ma bisogna assicurare le garanzie dell'equo processo anche al legale a cui vengono applicate misure cautelari particolarmente gravose (come il divieto di esercitare la professione).
Secondo un costante orientamento della Corte, un'udienza orale e pubblica costituisce un principio fondamentale stabilito dall'art. 6, nonostante non sia un principio dal carattere "assoluto", poichè possono esserci procedimenti in cui l'udienza non è richiesta (ad esempio se è possibile decidere il caso in maniera chiara e ragionevole in base alle produzioni di parte e ad altro materiale probatorio).
Il rifiuto di un'udienza può quindi essere giustificato solo in rari casi e, in quello sottoposto all'attenzione della Corte, non si è ravvisata la necessaria "urgenza" (visti i tempi per arrivare al provvedimento) ed inoltre l'avvocato aveva esplicitamente richiesto di essere ascoltato.
Non avergli concesso una pubblica udienza prima dell'applicazione della misura cautelare, pertanto, rappresenta un ingiustificato diniego che viola la normativa sull'equo processo stabilita dall'art. 6 della Convenzione.