di Lucia Izzo - Il comportamento della moglie che, dopo l'ennesimo litigio con il marito, decide di abbandonare il tetto coniugale senza farvi ritorno, anche in assenza di violenza fisica nei suoi riguardi, è indice dell'esistenza di un conflitto permanente nella coppia che ben può essere indicativo della definitiva rottura della comunione spirituale fra i coniugi. Non va, quindi, addebitata alla consorte la separazione giudiziale, se addirittura la donna ha tentato di far ritorno a casa, ma non ha potuto in quanto la serratura era stata cambiata.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, VI sezione civile, nell'ordinanza n. 7163/2016 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di una donna a cui i giudici di merito avevano addebitato la separazione giudiziale, come richiesto dal marito.
La Corte d'Appello aveva ritenuto che l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza fosse stata determinata dal comportamento della signora, che si era volontariamente allontanata dal domicilio coniugale senza alcuna ragione giustificatrice.
In particolare, i testi escussi avevano riferito che le liti fra i coniugi erano state determinate dall'atteggiamento provocatorio della moglie, e i giudici avevano rilevato che le denunce-querele da questa sporte contro il marito erano prive di riscontri documentali e che il certificato rilasciatole dal pronto-soccorso la sera dei suo allontanamento dalla casa familiare appariva generico e non probante di eventuali violenze subite.
La ricorrente, invece, lamenta che non sia stato tenuto conto dei fatti decisivi che avrebbero dovuto condurre ad escludere la sua volontà di allontanarsi immotivatamente e definitivamente dalla casa coniugale.
La Corte di Cassazione, ritenendo la domanda della donna fondata, chiarisce che la corte del merito ha sbagliato ad addebitare la separazione alla donna, non avendo considerato, al di là dell'atteggiamento asseritamente provocatorio della signora (peraltro riferito da familiari del marito, la cui attendibilità in ordine alle ragioni di contrasto fra marito e moglie avrebbe dovuto essere vagliata con particolare rigore) che i litigi fra i coniugi fossero frequenti ben prima che la stessa assumesse l'iniziativa di allontanarsi dal domicilio coniugale.
Inoltre, è pacifico che la donna, all'epoca dei fatti incinta, appena prima di decidersi all'allontanamento, si era recata in ospedale impaurita dalle possibili conseguenze, per la propria salute e per quella del feto, di un "litigio domestico" di cui aveva riferito ai sanitari.
Infine, secondo quanto accertato dal giudice di primo grado, dopo pochi giorni la ricorrente aveva anche tentato di far rientro a casa, ma il rientro le era stato impedito dall'avvenuta sostituzione della serrature del portone d'ingresso dell'abitazione.
Tali circostanze, precisano gli Ermellini, denotano senza dubbio una situazione di conflitto permanente che ben può essere indicativa della definitiva rottura della comunione spirituale fra i coniugi: è pertanto sicuramente errato, e non rispondente ai principi giurisprudenziali ripetutamente enunciati in materia dalla Corte di legittimità, ritenere ingiustificato il comportamento di una moglie che essendo in attesa di un figlio (e vivendo pertanto una situazione particolarmente delicata sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico) abbia scelto di non far ritorno a casa dopo l'ennesimo litigio col marito, solo perché non v'è prova che questi le abbia usato violenza fisica.
La circostanza che la donna avesse tentato senza successo di far ritorno a casa (totalmente ignorata dalla corte territoriale e inopinatamente ritenuta dal primo giudice "una lecita risposta" del marito al comportamento della moglie, quasi che sussista una sorta di diritto del coniuge, ancorché incolpevole, alla ritorsione) esclude, invece, la volontà della moglie di abbandonare definitivamente il tetto coniugale ed appare, piuttosto, rilevante quale segnale di una contestuale, maturata decisione del marito di porre fine alla convivenza.
Il collegio, quindi, accoglie il ricorso e rinvia alla Corte d'Appello per un riesame.
Cass., VI sez. civ., ord. 7163/2016• Foto: 123rf.com