La scintilla scocca dalla gradevole lettura di una sentenza, la n. 1035 del 5 marzo 2015, emessa dalla Corte d'Appello di Milano, Sez. II Civile, presieduta dalla Dott.ssa Nicoletta Ongania; a comporre il Collegio le Consigliere Vinicia Calendino e Maria Caterina Chiulli; quest'ultima è l'autrice della motivazione, che scrutina la pronuncia del Tribunale di Pavia n. 352/2012, che alla fine verrà confermata in ogni sua parte.
La sentenza contiene la storia di una signora di ventotto anni che subisce ben quattro interventi di mastoplastica riduttiva bilaterale; la parte operata diventa un deturpato campo di battaglia per i gravi effetti deformanti, in particolare al seno sinistro.
Senso di vuoto e di vergogna, non ci si piace più, si tende a non farsi vedere dal partner o al mare o in piscina. L'impressione che lo sguardo dei passanti si appunti sempre sulla parte offesa.
Una prima riflessione che mi balza in mente è: qual è l'onere di allegazione cui è sottoposta la vittima di una violazione della salute.
Abbiamo studiato nei testi scolastici il caso del dito mignolo del pianista o del violinista.
Anche se tutti siamo ormai diventati pianisti delle tastiere dei mille ordigni tecnologici che adoperiamo, normalmente il professionista non dovrebbe avere problemi a fronte di una frattura del mignolo cagionata da fatto illecito.
Siamo al cospetto di uno specific damage.
La Corte distrettuale meneghina ha ricordato che "se è vero che il preteso danneggiato deve qualificare l'inadempimento che pone a base della propria richiesta risarcitoria, con l'onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della domanda, tale onere non si spinge sino alla necessità di enucleazione e di indicazione di specifici peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciute e conoscibili soltanto dagli esperti di settore".
La differenziazione degli specific damages dai general damages (i danni che normalmente si producono) merita rilievo per l'appunto nella sfera dell'allegazione, ch'è - come sottolineava proprio il Collegio ambrosiano - l'individuazione dei fatti posti a fondamento della domanda (qui risarcitoria); del pari, assume risalto la distinzione sul piano del thema decidendum e del thema probandum.
Allora, a tacer della differenziazione di pura teoria, il primo suggerimento pratico che mi permetto di rivolgere agli affezionati lettori di LIA Law In Action è: per la paziente - nostra cliente mastectomizzata dedurre, dedurre, dedurre, anche in maniera sovrabbondante, pure correndo il rischio di apparire prolissi.
Del resto, gli avvocati debbono... offrire con abbondanza la mercanzia dei loro argomenti.
Allegare e provare!
Sarà, poi, il giudice a selezionare quel che gli garba ai fini del decidere.
Ergo, giù prove personalizzanti come se piovesse!
A titolo esemplificativo, affronteremo il profilo della libido, persa o scemata.
Di certo, il giudice potrà liquidare un quid in più perché sfido chiunque ad individuare in tale ipotesi una duplicazione risarcitoria.
Del resto, le Sezioni Unite di San Martino 2008, ovvero lo statuto del danno non patrimoniale, volevano scongiurare proprio le duplicazioni.
Si ha duplicazione di risarcimento soltanto quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi differenti.
Il danno non patrimoniale costituisce categoria unitaria all'interno della quale le distinzioni tradizionali, come il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale, possono continuare ad essere usate al solo fine di sintetizzare quale tipo o tipi di pregiudizio il giudicante abbia preso in considerazione per giungere alla liquidazione.
Se il plaintiff fosse una suora, che ha fatto voto di castità, non potrà certo invocare tale perdita o riduzione dinamico relazionale secondaria alla violazione della salute.
Vi è un passo che merita di suscitare attenzione e riflessione frugando con curiosità tra le espressioni del Collegio ambrosiano.
E' decisamente questo il filamento della pronuncia che mi ha attratto e di cui vorrei trattare.
Ossia l'accertata, omessa informazione, l'evanescente danno da carenza del consenso informato all'operazione.
Il bandolo della matassa è se la sfortunata ventottenne si sarebbe assoggettata all'intervento chirurgico se avesse saputo quel che rischiava.
Attorno a questo fulcro tutto ruota.
Era il IV secolo a.C. quando Ippocrate formula il giuramento che accompagnerà nei secoli dei secoli la professione medica.
Un'autolimitazione della potestà di sanare.
La base giuridica del diritto inviolabile all'autodeterminazione riposa attualmente, muovendo dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte Costituzionale, sugli articoli 2, 13 e 32 della Carta.
Numerosi gli antecedenti nella giurisprudenza della Consulta: si vedano, a titolo esemplificativo, le sentenze n. 332 del 2000 e n. 282 del 2002.
Il pensiero vola ora alla fondamentale pronuncia della Cass. n. 21748 del 2007 relativa non all'eutanasia, bensì al diritto di morire con dignità nel drammatico caso di Eluana Englaro.
Si levano alte le cristalline parole dell'Estensore Alberto Giusti sulla ricostruzione del vissuto della sfortunata ragazza.
Veniamo finalmente ad App. Milano 1035/2015.
"La parte appellante lamenta... che il primo giudice non abbia ravvisato gli estremi per il riconoscimento del risarcimento del danno conseguente alla mancanza del consenso informato in relazione a tutti gli interventi, ad eccezione del terzo".
Esaminando gli atti prodotti il S.C. rileva che è presente un modulo generico, buono per tutti gli usi chirurgici e per tutte le stagioni, sottoscritto dalla paziente, non dal medico, addirittura sprovvisto di data.
Nella cartella clinica è inserito un altro modulo, stavolta munito di datazione, però non firmato dall'ammalata.
Inoltre, questo documento riguarda l'intervento di inserimento della protesi mammaria, ma non di quello di mastoriduzione.
Se ne ritrae che l'intervento è stato effettuato senza adeguata informazione, se si eccettui il frangente della terza operazione.
Non si è, quindi, formato un valido consenso alle pratiche sanitarie operate nei confronti della persona assistita.
"Difatti - aggiunge App. Milano 1035/2015 - la correttezza dell'informazione preliminare da rendere al paziente impone al medico di essere preciso ed esauriente sulla natura della malattia, sulle reali indicazioni e controindicazioni della prestazione sanitaria che egli va ad effettuare, sui rischi ad essa legati, sugli obiettivi perseguiti".
L'obbligo di informazione è, dunque, rivolto a tutelare la libertà di autodeterminazione del paziente, che è diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute; comporta, dunque, un'autonoma voce risarcitoria anche in assenza di danno biologico.
E qui si apre uno scenario rivoluzionario: ma allora, checché ne dicano le Sezioni Unite n. 15350 del 2015, n. 15350, sul danno da perdita della vita (imprimenti continuità al risalente richiamo alle Sezioni Unite del 1925, quando di acqua sotto i ponti del diritto ne è passata davvero tantissima), non stiamo parlando di un danno in re ipsa, quindi di un danno evento che fa eccezione alla regola dei danni solo ed esclusivamente conseguenza?
Scriveva nella sentenza Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361, il Cons. Luigi Alessandro Scarano: "il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza".
Ragionando come fa il S.C. in questa sentenza - trattato si snatura realmente la funzione del risarcimento che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo?
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