di Lucia Izzo - Non spetta all'avvocato assicurato, in qualità di padre biologico di un bambino, il pagamento dell'indennità di maternità in alternativa alla madre.
Ciò in quanto la Corte Costituzionale nella sentenza n. 385/2005 ha sì definito discriminatoria la norma che non facoltizzava anche il padre libero professionista alla misura previdenziale, ma aveva demandato al legislatore di stabilire un meccanismo attuativo che, non essendovi stato, priva la pretesa di un ancoraggio legale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 8594/2016 (qui sotto allegata).
Il ricorrente, a cui il Tribunale aveva riconosciuto il diritto a percepire l'indennità di maternità (in alternativa alla madre) ex art. 70 d.lgs. n. 151/2001, condannando al pagamento la Cassa Forense, impugna la decisione di riforma emessa dalla Corte d'Appello che aveva poi rigettato la domanda.
La sentenza di prime cure, osserva la Corte territoriale, muoveva da un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 70, ma la sentenza della Corte costituzionale n. 385/2005, nonostante avesse definito discriminatoria la norma che non consentiva al padre libero professionista di ottenere l'indennizzo, aveva lasciato al legislatore la necessità di intervenire per riequilibrare la minor tutela riservata al padre. Non essendovi stata alcuna attuazione di tale precisazione, la pretesa non avrebbe potuto trovare accoglimento.
Inoltre, precisa il giudice del gravame, la Corte aveva espressamente voluto circoscrivere la portata della statuizione nella consapevolezza delle oggettive differenze sussistenti tra le due categorie di genitori: la diversità di genere ben può giustificare una maggiore e speciale tutela per la madre biologica.
Innanzi agli Ermellini, il legale invoca la percettività "autoapplicativa" della sentenza n. 385/2005 che non si sarebbe limitata al caso concretamente esaminato (riguardante un genitore adottivo) e in ogni caso richiama la necessità di una interpretazione "costituzionalmente" orientata e comunque coerente con le linee evolutive del diritto sovranazionale e dello stesso diritto interno che tenderebbe ad assimilare, nell'interesse della protezione nel suo complesso del nucleo familiare e della valorizzazione dei bisogni del bambino, la situazione del padre e della madre rispetto all'evento maternità, in funzione antidiscriminatoria.
Doglianze, tuttavia, che non appaiono fondate: il Collegio, abbracciando le conclusioni della Corte d'Appello, evidenzia che le questioni sollevate hanno già trovato una condivisibile e ragionevole risposta nella sentenza n. 285/2010 con la quale la stessa Corte costituzionale ha dichiarato la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 d.lgs n. 151/2001 con riferimento proprio ad un caso nel quale si rivendicava l'indennità di maternità per un padre biologico.
Risulta evidente come la decisione del 2005 non sia auto-applicativa (self-executing), sempre ammesso che la stessa decisione possa riguardare anche casi diversi da quello espressamente esaminato, che non riguardava la paternità biologica; si rende comunque necessario un intervento del legislatore volto a delineare il punto di bilanciamento tra principio di parità di trattamento tra coniugi, diritti del bambino e protezione specifica della salute e dell'integrità psico-fisica della madre in ordine a tutte le provvidenze che sono connesse all'evento "nascita biologica".
La Corte delle leggi ha evidenziato come nel caso dell'indennità di maternità sussiste una specificità protettiva (che giustifica una tutela più intensa della sola donna) che riguarda proprio la salute della madre biologica (che si aggiunge alle finalità concernenti la protezione del bambino e del nucleo familiare), per cui la parità di trattamento tra coniugi è stata assicurata in relazione a diverse ipotesi come l'infermità della madre o il suo abbandono del nucleo familiare o nei casi di adozione ed affidamento che giustificano, per ragioni piuttosto evidenti, un'estensione anche al padre della provvidenza in discorso.
Inoltre, neppure il riferimento all'evoluzione del diritto sovranazionale appare determinante e conclusivo perché proprio l'esempio citato della direttiva sui congedi parentali dimostra come l'azione regolatrice dell'Ue abbia voluto l'equiparazione tra sessi ad un istituto in cui viene prioritariamente in gioco l'interesse preminente del nucleo familiare (e dei minori) e non già quello alla salute della donna-madre.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Cass., sezione lavoro, sent. n. 8594/2016