di Marina Crisafi - Insultare e inviare messaggi minatori su Facebook alle stesse persone può integrare il reato di stalking e non quello meno grave di diffamazione, se le azioni sono in grado di provocare uno stato di ansia e di paura nei destinatari. Ad affermarlo, è la quinta sezione penale Cassazione (con la sentenza n. 21407/2016 di ieri, qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un uomo avverso l'ordinanza del tribunale che gli aveva imposto il divieto di avvicinamento agli ex suoceri, con l'obbligo di stare lontano almeno 250 metri dalla loro casa e di astenersi dal comunicare con gli stessi con qualsiasi mezzo, visto che, nei loro confronti, era stato riconosciuto colpevole del reato di atti persecutori.
Nella vicenda in esame, l'uomo, al quale dopo la separazione dalla compagna, erano stati tolti due dei quattro figli, affidati ai nonni materni, aveva perpetrato una serie di condotte persecutorie nei confronti della coppia di anziani, seguendoli nei loro spostamenti, ingiuriandoli e denigrandoli anche su Facebook tanto da ingenerare in loro un grave stato di ansia e il timore per la propria incolumità.
Inutile per l'imputato sostenere che al massimo i messaggi pubblicati sul social avrebbero potuto integrare soltanto il reato di diffamazione.
Gli Ermellini, infatti, ricordano che il più grave delitto di stalking tiene conto della reiterazione delle condotte e non del singolo episodio "che pur potendo in ipotesi integrare in sé un autonomo reato va letto nell'ambito delle complessive attività persecutorie". È irrilevante dunque che le singole condotte siano o meno autonomamente perseguibili come reati, potendo altresì rilevare comportamenti non specificamente oggetto di nome incriminatrici di parte speciale, "purchè l'abitualità degli stessi si traduca nella percezione di atti persecutori idonei a cagionare uno degli eventi di anno previsti dalla norma".
Quanto al profilo soggettivo, lo stalking è "un reato abituale di evento assistito dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione".
In conclusione, anche l'azione commessa sui social può rientrare nella strategia persecutoria messa in atto e concorrere a far scattare le misure di protezione.
Da qui l'inammissibilità del ricorso e la condanna dell'uomo al pagamento delle spese processuali oltre ad una somma a favore della cassa delle ammende.
Cassazione, sentenza n. 21407/2016
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