di Marina Crisafi - Un avvocato, un commercialista o un qualsiasi altro professionista, secondo il fisco, non può fornire servizi gratuiti ad amici e clienti. Scatta, infatti, l'accertamento per l'invio non fatturato, giacché l'attenzione è posta sullo scostamento tra le dichiarazioni inviate in un determinato anno di imposta e le fatture emesse, con la conseguente contestazione per le prestazioni che non risultano remunerate.
Accertamenti che peraltro il fisco avvia, incrociando i dati inviati dagli intermediari abilitati (cui richiede tramite questionario l'esibizione delle fatture emesse in uno specifico anno di imposta) e quelli presenti nell'anagrafe tributaria, senza alcuna richiesta di chiarimento o accesso presso lo studio del professionista.
In sostanza, dopo la disamina, se c'è uno scostamento tra i clienti indicati nelle fatture emesse e i dati trasmessi nelle dichiarazioni, i funzionari accertatori procedono con la rettifica. Per motivarla, nell'atto di accertamento l'ufficio spiega di aver proceduto alla rettifica presuntiva del reddito ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.p.r. n. 600/1973 (si tratta dell'"accertamento analitico induttivo"), in base all'inesattezza e incompletezza di quanto indicato nella dichiarazione.
Laddove, invece, i dati esaminati dall'agenzia risultino in linea con quelli stimabili in base allo studio di settore applicabile, e, dunque, la contabilità risulta regolare, l'accertamento presuntivo può essere effettuato ugualmente, con la motivazione che l'omessa fatturazione di servizi prestati rappresenta una condotta antieconomica, giacché la gratuità delle prestazioni non è considerata verosimile se riguarda soggetti diversi dai familiari del professionista, per cui la prestazione si presume a carattere oneroso.
Come può difendersi dunque il professionista?
Oltre a tentare l'accertamento con adesione
onde evitare il successivo contenzioso, provando sia la correttezza delle scritture contabili che la gratuità delle prestazioni rese, il professionista può sempre rifarsi all'orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale con diverse pronunce, ha ammesso che il fisco non può contestare le prestazioni rese a titolo gratuito a favore di amici, parenti o soci di clienti (cfr. Cass. n. 21972/2015 leggi: "Cassazione: il professionista ben può lavorare gratis per parenti e amici") e che in ogni caso l'onerosità della prestazione professionale non è essenziale (cfr. Cass. n. 16966/2005), essendo plausibile e ragionevole che il professionista possa decidere di lavorare gratuitamente in considerazione dei rapporti che lo legano a determinati clienti.In mancanza di accordo, comunque, il professionista dovrà ricorrere alla procedura di reclamo/mediazione oppure (se si supera l'importo complessivo di 20mila euro) impugnare l'accertamento innanzi alla commissione tributaria competente, invocando l'illegittimità dell'atto (sia per la violazione delle regole probatorie che per l'eventuale assenza del contraddittorio).
Resta inteso che, per il professionista che voglia tutelarsi "ex ante", prevenendo futuri accertamenti, è bene evitare la fatturazione di compensi simbolici, di modesta entità (cfr. Cass. n. 20269/2010). È preferibile invece, provare a monte la gratuità delle prestazioni, predisponendo già prima di rendere i propri servigi nei confronti di soggetti non legati da rapporti di parentela, delle lettere formali di incarico (da trasmettere via pec o per posta), dalle quali si evincano le motivazioni per cui non verrà richiesto alcun corrispettivo.
• Foto: 123rf.com