di Lucia Izzo - Ha rilevanza disciplinare il comportamento dell'avvocato, irriducibile ultrà, condannato per aver preso parte ai disordini intercorsi tra i tifosi e la polizia.
Nonostante la condotta non riguardi strictu sensu l'esercizio della professione, questa lede comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro e si riflette negativamente sull'attività professionale, compromettendo l'immagine dell'avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l'immagine dell'avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto.
Lo ha disposto il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza 145/2015 (qui sotto allegata) pubblicata il 24 maggio 2016 sul sito istituzionale.
L'avvocato è un tifoso, condannato per aver partecipato a disordini intercorsi la polizia, a cui viene poi comminata dal competente Consiglio dell'Ordine la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di due mesi.
L'avvocato sostiene la propria estraneità ai fatti, argomentando che la scelta di patteggiare la pena di cui in sentenza era stata motivata dalla necessità di evitare possibili ulteriori conseguenze di carattere personale, professionale e familiare ed, in particolare, la possibile esecuzione di misure coercitive.
Il Collegio ribadisce che, ancorché il procedimento disciplinare sia autonomo rispetto al procedimento penale avviato per lo stesso fatto, a norma dell'art. 653 c.p.p. la sentenza penale di applicazione di pena su richiesta delle parti è equiparata a quella di condanna.
Ne consegue, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 336/2009, che essa esplica funzione di giudicato nel procedimento disciplinare quanto all'accertamento del fatto, alla sua estrinsecazione soggettiva ed oggettiva, alla sua illiceità penale, ed alla responsabilità dell'incolpato.
Al Giudice disciplinare è esclusivamente rimessa la valutazione del disvalore della condotta dal punto di vista dell'ordinamento professionale.
L'art. 5 del codice deontologico forense, oltre ad enunciare il principio per cui l'avvocato deve ispirare il proprio contegno all'osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro, salvaguardandoli anche nella sua sfera privata, vieta al professionista di trascendere in comportamenti che si discostino da tali valori.
Quanto alla vita privata, la giurisprudenza domestica ha più volte evidenziato che i fatti disciplinarmente rilevanti non sono solo quelli che direttamente attengono all'esercizio dell'attività professionale, ma valgono anche quelli che connotino negativamente la figura di un iscritto all'albo, e che non abbiano una precipua connotazione riservatamente privata, nonché quelli idonei a gettare discredito sull'immagine della categoria professionale.
Nessun dubbio può, quindi, sollevarsi sulla competenza del Giudice disciplinare a conoscere anche del comportamento dell'avvocato in ogni aspetto della vita di relazione, ancorché per fatti non attinenti all'attività professionale.
In base a tale assunto, il Consiglio rigetta il ricorso reputando correttamente applicata la sanzione in relazione al comportamento complessivo dell'incolpato, ed alle risultanze del procedimento.
CNF, sentenza n. 145/2015• Foto: 123rf.com