di Paolo M. Storani - LIA Law In Action tiene a pubblicare una esemplare pronuncia della Suprema Corte, la n. 7766 del 20 aprile 2016, frutto dell'illuminata penna di Giacomo Travaglino, della Sez. III e componente delle Sezioni Unite.
Buona lettura!
I FATTI
La HDI Assicurazioni impugnò la sentenza con la quale il Tribunale di Bologna, in accoglimento della domanda proposta da G. U. nei confronti di S.P., M.R. e di essa appellante, aveva condannato i convenuti in solido al risarcimento dei gravissimi danni patiti dall'attore in occasione di un sinistro stradale.
La corte di appello di Bologna rigettò il gravame.
Osservò il giudice territoriale, nel confermare la sentenza di primo grado, che la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal primo giudice, discostandosi motivatamente dai parametri risarcitori indicati nelle tabelle milanesi (parametri che questa Corte ha indicato come applicabili, sia pur in via equitativa, da ogni giudice di merito: Cass. 12408 e Cass. 14402 del 2011), trovava il suo fondamento nella particolarità ed eccezionalità del caso di specie (ciò che, secondo le stesse indicazioni contenute nelle predette tabelle, consentiva di discostarsi dai relativi criteri di quantificazione matematica), rappresentate:
quanto alla voce di danno biologico, rettamente intesa come compromissione delle attività dinamico-relazionali del danneggiato, dalla particolare rilevanza, tra l'altro, del danno estetico, tale da incidere sensibilmente sulla esistenza del ricorrente sul piano delle relazioni esterne, tanto più in ragione della sua età;
quanto al pregiudizio psichico, altrettanto rettamente inteso come danno morale, dalle sofferenze conseguenti ai vari interventi chirurgici cui egli era stato costretto a causa della negligenza altrui, ed alla irrimediabile compromissione del suo aspetto fisico e del suo stato di salute.
Per la cassazione della sentenza della Corte felsinea la HDI ha proposto ricorso sulla base di 2 motivi di censura.
Resiste G.U. con controricorso.
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c. - erroneità e iniquità delle somme conteggiate dalla Corte di appello di Bologna - manifesta illogicità della parte motiva della sentenza.
Il motivo - con il quale si ripongono, nella sostanza, le medesime doglianze svolte in sede di appello, contestandosi con esse i criteri risarcitori adottati dalla Corte territoriale nella parte in cui questi risultano palesemente disomogenei rispetto a quelli generalmente applicabili alla stregua delle tabelle milanesi - è privo di pregio.
Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha esaustivamente e puntualmente argomentato la propria decisione, da un canto, richiamando per relationem la ancor più ampia e convincente motivazione della sentenza di prime cure, dall'altro, evidenziando come la peculiarità e la eccezionalità del caso concreto consentissero (ed anzi imponessero) una adeguata personalizzazione del danno.
Anche le voci di danno liquidate - il danno dinamico/relazionale, corrispondente al radicale sconvolgimento della dimensione della vita quotidiana, e cioè di quel rapporto dell'essere umano con la realtà esterna - tutto ciò che costituisce "l'altro da se stessi"; la sofferenza morale, scaturente dalla diversa ed intimistica relazione del soggetto con se stesso - risultano correttamente individuate dalla Corte di merito e altrettanto correttamente implementate, rispetto alle tabelle milanesi, con riferimento alla eccezionalità del caso concreto.
2. La motivazione della Corte di appello, alla luce delle censure mosse dal ricorrente con il motivo in esame, deve essere peraltro integrata con le considerazioni che seguono.
2.1. In premessa, va riaffermato, su di un piano generale (Cass. 4379/2016) che il nostro ordinamento positivo conosce e disciplina (soltanto) la duplice fattispecie del danno emergente e del lucro cessante (art. 1223 c.c.) e quella del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.).
La natura unitaria del danno non patrimoniale, espressamente predicata dalle Sezioni Unite di questa Corte, deve essere intesa, secondo tale insegnamento, come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica (Cass. ss.uu. 26972/2008).
Natura unitaria sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, sia esso costituito dalla lesione alla reputazione, alla libertà religiosa o sessuale, piuttosto che a quella al rapporto parentale.
Natura onnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari (in tali termini, del tutto condivisibilmente, Cass. 4379/2016).
2.2. L'accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte.
2.2.1 Ma, se esse non richiedono il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie, non possono per altro verso non tener conto della reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore ancor più grave, e cioè quello di sostituire una meta-realtà giuridica ad una realtà fenomenica.
Oggetto della valutazione giudiziaria, quando il giudice è chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali, è, nel prisma del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.
2.3. Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione ove si discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale sofferto dalla persona per il nuovo millennio.
La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la "sopravvivenza descrittiva" (come le stesse sezioni unite testualmente la definiranno) del cd. danno esistenziale, se è vero come è vero che "esistenziale" è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute (ma non solo), si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza della lesione medicalmente accertabile.
Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (oltre alla salute, il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione, sul piano della prova, tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, in tali sensi rettamente inteso, ovvero, se si preferisca un lessico meno inquietante, il danno alla vita di relazione).
In questa semplice realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie che non cancellino la fenomenologia del danno alla persona attraverso sterili formalismi unificanti) all'interrogativo circa la reale natura e la vera, costante essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che cambia.
Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso si rinviene nel disposto dell'art. 612-bis c.p., che, sotto la rubrica intitolata "Atti persecutori", dispone che sia "punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura (ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva), ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita".
Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge - per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale - i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana.
Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie quanto impredicabili generalizzazioni (ché anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita di relazione per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa; ché anche la sofferenza più grande che un figlio può patire, quale la perdita per morte violenta di un genitore, non implica ipso facto la risarcibilità del danno, se danno non vi fu perchè, da tempo, irrimediabilmente deteriorato il rapporto parentale).
E se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che la categoria del danno "esistenziale" risulti "indefinita e atipica", ciò appare la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica".
3. Su tali premesse si innesta la recente pronuncia della Corte costituzionale, n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale dell'art. 139 del codice delle assicurazioni, la cui (non superficiale o volutamente parziale) lettura conduce a conclusioni non dissimili.
Si legge, difatti, al punto 10.1 di quella pronuncia, che "la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)".
La limitazione ex lege dell'eventuale liquidazione del danno morale viene così motivata dal giudice delle leggi:
"In un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata - in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di Garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi" (punto 10.2.2.).
La Corte prosegue, poi, significativamente, sottolineando come "l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno - attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella - lascia comunque spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio risultante dall'applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato".
3.1. La motivazione della Corte non sembra prestarsi ad equivoci.
3.1.2. Il danno biologico da micro permanenti, definito dall'art. 139 C.d.A. come "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato", può essere "aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato" secondo la testuale disposizione della norma: e il giudice delle leggi ha voluto esplicitare una volontà legislativa che, alla luce delle considerazioni svolte, limitava la risarcibilità del danno biologico da micropermanente ai valori tabellari stabiliti ex lege, contestualmente circoscrivendo l'aumento del quantum risarcitorio in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato e cioè attraverso la personalizzazione del danno, senza che "la norma denunciata sia chiusa al risarcimento anche del danno morale" - al 20% di quanto riconosciuto per il danno biologico.
3.2. Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della "unicità del danno biologico", qual sorta di primo motore immobile dell'intero sistema risarcitorio.
Anche all'interno del micro-sistema delle micro-permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche ottusamente sovrapporsi alla fenomenologia della sofferenza) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.
Ma tante dispute sarebbero forse state evitate ad una più attenta lettura della definizione di danno biologico, identica nella formulazione dell'art. 139 come dell'art. 138 del codice delle assicurazioni nel suo aspetto morfologico (una lesione medicalmente accertabile), ma diversa in quello funzionale, discorrendo la seconda delle norme citate di lesione "che esplica un'incidenza negativa sulla attività quotidiana e sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato".
Una dimensione, dunque, dinamica della lesione, una proiezione tutta (e solo) esterna al soggetto, un vulnus a tutto ciò che è "altro da sé" rispetto all'essenza interiore della persona.
3.2.1. La distinzione dal danno morale si fa dunque ancor più cristallina ad una (altrettanto attenta) lettura dell'art. 138, che testualmente la Corte costituzionale esclude dalla portata precettiva del proprio decisum in punto di limitazione ex lege della liquidazione del danno morale.
Il meccanismo standard di quantificazione del danno attiene, difatti, "al solo, specifico, limitato settore delle lesioni di lieve entità" dell'art. 139 (e non sembra casuale che il giudice delle leggi abbia voluto rafforzare il già chiaro concetto con l'aggiunta di ben tre diversi aggettivi).
L'art. 138, dopo aver definito, alla lett. a) del comma 2, il danno biologico in maniera del tutto identica a quella di cui all'articolo successivo, precisa poi, al comma 3, che "qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali,... l'ammontare del danno può essere aumentata dal giudice sino al trenta per cento con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato".
Lo stesso tenore letterale della disposizione in esame lascia comprendere il perchè la Corte costituzionale abbia specificamente e rigorosamente limitato il suo dictum alle sole micropermanenti: nelle lesioni di non lieve entità, difatti, l'equo apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato è funzione necessaria ed esclusiva della rilevante incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico relazionali personali.
Il che conferma, seppur fosse ancora necessario, la legittimità dell'individuazione della doppia dimensione fenomenologica del danno, quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece, evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento.
Il che conferma che, al di fuori del circoscritto ed eccezionale ambito delle micropermanenti, l'aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale.
Senza che ciò costituisca alcuna "duplicazione risarcitoria".
In altri termini, se le tabelle del danno biologico offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto.
Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore.
Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro predicabile.
3.3. Il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale, così inteso, conserva, dunque, una sua intima coerenza, e consente l'applicazione dei criteri posti a presidio della sua applicazione senza soluzioni di continuità o poco ragionevoli iati dovuti alla specifica tipologia di diritti costituzionalmente tutelati.
Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza. E se un paragone con la sfera patrimoniale del soggetto fosse lecito proporre, appare delinearsi una sorta di simmetria carsica con la doppia dimensione del danno patrimoniale, il danno emergente (danno "interno", che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e il lucro cessante (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna).
Altra significativa conferma della bontà di tale ricostruzione sistematica della fattispecie del danno alla persona è oggi offerta dal progetto di riforma dell'art. 138 del codice delle assicurazioni, contenuto nel cd. "decreto concorrenza", il cui terzo comma distingue, senza possibilità di equivoci, l'aspetto dinamico relazionale del danno dalla sofferenza psicofisica di particolare intensità, prevedendo in tali casi un aumento del risarcimento, rispetto a quanto previsto nella tabella unica nazionale, fino al 40%.
4. Nel caso di specie, non sembra seriamente discutibile che tale, duplice dimensione della sofferenza umana la compromessa relazione con il mondo esterno, il vulnus arrecato al costante dialogo con se stessi e al proprio equilibrio interiore - sia stata correttamente individuata e altrettanto correttamente valutata dal giudice felsineo, poichè, al di là delle sterili diatribe terminologiche, sarebbe sufficiente al giudice (a qualsiasi giudice) dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell'occuparsi dell'essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta "altro da se", secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore (non a caso, rispetto al dolore dell'anima, la scienza psichiatrica discorre di resilienza), sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità.
E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poichè non esiste una tabella universale della sofferenza umana.
E' questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza.
Compito sicuramente arduo, attesa la dolorosa disomogeneità tra la dimensione del dolore e quella del danaro, ma reso meno disagevole da un costante lavoro di approfondimento e conoscenza del singolo caso concreto - o, se si vuole, di progressivo e faticoso "smascheramento" della narrazione cartacea rispetto alla realtà della sofferenza umana.
La questione si sposta così sul piano della allegazione e della prova del danno, correttamente valutata dalla Corte territoriale, la cui formazione in giudizio postula, va sottolineato ancora una volta, la consapevolezza della unicità e irripetibilità della vicenda umana sottoposta alla cognizione del giudice, altro non significando il richiamo "alle condizioni soggettive del danneggiato" che il legislatore ha opportunamente trasfuso in norma.
Prova che, come efficacemente rammentato della sentenze delle sezioni unite del 2008, potrà essere fornita senza limiti, e dunque avvalendosi anche delle presunzioni e del notorio, se del caso, in via esclusiva.
E di tali mezzi di prova il giudice di merito potrà disporre alla luce di una ideale scala discendente di valore dimostrativo, volta che essi, in una dimensione speculare rispetto alla gravità della lesione, rivestiranno efficacia tanto maggiore quanto più sia ragionevolmente presumibile la gravità delle conseguenze, intime e relazionali, sofferte dal danneggiato.
Delle quali, peraltro, va ripetuto, nessun automatismo è lecito inferire.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 c.c. -; manifesta erroneità e illogicità della decisione in relazione alle emergenze istruttorie, ovvero alle risultanze della CTU, vizio di motivazione della sentenza.
Il motivo è manifestamente infondato.
Contrariamente all'assunto di parte ricorrente, che lamenta una pretesa apoditticità della decisione impugnata, asseritamente "viziata dalla illegittima inferenza di una serie di indimostrate e opinabili conseguenze", va osservato che la parte oggi resistente ebbe a produrre, sin dal giudizio di primo grado, ampia documentazione attestante la assoluta gravità ed eccezionalità dei postumi del sinistro, mentre la stessa CTU espletata in primo grado e richiamata dal giudice di appello non manca di far riferimento alla complessiva, rilevantissima gravità del pregiudizio subito dal G..
E' agevole concludere, pertanto, che, nel loro complesso, entrambe le censure mosse alla sentenza impugnata nell'intestazione del motivo in esame, pur formalmente abbigliate in veste di denuncia di una pretesa violazione di legge e un di decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all'impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse - ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E' principio di diritto ormai consolidato quello per cui l'art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo -
sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto - delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello - non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.
Il ricorso è pertanto rigettato.
Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.
Liquidazione come da dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 10.200, di cui 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 16 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2016.