di Lucia Izzo - Il motivo per cui il legislatore ha posto a favore della controparte la condotta della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata dal giudice, anche d'ufficio, ex art. 96, terzo comma, c.p.c., è ricollegabile all'obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna.
Lo ha precisato la Corte Costituzionale, sentenza n. 152/2016 (qui sotto allegata), depositata il 23 giugno 2016.
La questione, sollevata dal Tribunale di Firenze, riguarda la legittimità costituzionale dell'art. 96, terzo comma del codice di procedura civile, per supposto contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui dispone: "In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata" anziché a favore dell'Erario.
Secondo il rimettente, la norma censurata avrebbe introdotto nel processo civile una fattispecie a carattere sanzionatorio diversa dalla struttura tipica dell'illecito civile, propria della responsabilità aggravata di cui ai primi due commi del medesimo art. 96, che, invece, confluirebbe in quella, del tutto diversa, delle cosiddette "condanne afflittive", avendo come scopo quello di scoraggiare l'abuso del processo, a tutela dell'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione civile e al giusto processo di cui all'art. 111 Cost.
Ne desume il Tribunale che la correlativa funzione non sia, pertanto, quella risarcitoria del danno subito (e comprovato) dalla parte vittoriosa, funzione, questa, assolta dai primi due commi della norma, bensì quella, ulteriore, di "presidiare il processo civile dal possibile abuso processuale e di soddisfare l'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione".
Se tale è l'interesse presidiato dall'art. 96, comma 3, c.p.c., "non si vede perché la medesima disposizione di legge preveda la condanna ad una somma equitativamente determinata della parte soccombente a favore della controparte vittoriosa anziché all'Erario, dal momento che la parte privata risulta già munita di adeguata protezione per il risarcimento del danno che la condotta abusiva del contraddittore abbia ad essa arrecato, cui corrisponde uno specifico diritto di azione".
La disposizione impugnata evidenzierebbe, dunque, un profilo di "intrinseca irragionevolezza ed arbitrarietà nella modulazione dell'istituto processuale".
In realtà, per i giudici della Corte Costituzionale, la qustione non è fondata.
Il Collegio rammenta che l'impugnato terzo comma è stato aggiunto all'art. 96 c.p.c. dall'art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
L'intervento legislativo muove dalla constatazione che l'istituto della responsabilità aggravata, pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso, nella prassi applicativa risultava scarsamente utilizzato a causa della oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno (in ordine al quantum) derivante dall'illecito processuale.
Preso atto di siffatta situazione, il legislatore, nell'intento di frenare l'eccesso di litigiosità che affligge il nostro ordinamento ed evitare l'instaurazione di giudizi meramente dilatori, ha quindi introdotto questo peculiare strumento sanzionatorio, che consente al giudice di liquidare a carico della parte soccombente, anche d'ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio.
La nuova disposizione, tuttavia, non è risultata di agevole lettura anche per le ulteriori modifiche legislative intervenute successivamente.
Oltre che sui (non compiutamente) definiti suoi presupposti applicativi, la dottrina e la giurisprudenza di merito si sono soprattutto divise sul punto se la condanna della parte soccombente contemplata dal comma terzo dell'art. 96 c.p.c. sia riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 del codice civile (e quindi abbia valenza, anch'essa, risarcitoria del danno cagionato, alla controparte, dalla proposizione di una lite temeraria) ovvero risponda ad una funzione (esclusivamente o prevalentemente) sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sè notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti.
La Consulta concorda con la prospettazione del Tribunale rimettente sulla natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata.
Depongono in questo senso, oltre ai richiamati lavori preparatori della novella, significativi elementi lessicali: la norma fa, infatti, riferimento alla condanna al "pagamento di una somma", segnando così una netta differenza terminologica rispetto al "risarcimento dei danni", oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c.
Ancorché inserita all'interno del predetto art. 96, la condanna di cui all'aggiunto suo terzo comma è testualmente (e sistematicamente), inoltre, collegata al contenuto della "pronuncia sulle spese di cui all'articolo 91" e la sua adottabilità "anche d'ufficio" la sottrae all'impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici.
Tuttavia la ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente non comporta, chiarisce la Consulta, la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del 2009, e tantomeno ne evidenzia quel livello di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in ordine all'esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali.
La motivazione, che ha indotto i redattori della novella a porre "a favore della controparte" l'introdotta previsione di condanna della parte soccombente al "pagamento della somma" in questione, è, infatti, plausibilmente ricollegabile all'obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico.
L'istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche a una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch'essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c.
La novella del 2009 ha esteso, sia pur con marginali varianti, a tutti i gradi di giudizio lo strumento deflattivo prima riferito alla sola fase di legittimità (ai sensi dell'abrogato art. 385 c.p.c.) e non presenta, dunque, connotati di irragionevolezza, ma riflette una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell'individuare la parte beneficiaria di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente al ripetersi di una siffatta condotta.
Corte Costituzionale, sent. n. 152/2016