di Valeria Zeppilli - Dalla Corte europea dei diritti dell'uomo è arrivata, il 23 giugno scorso, una significativa condanna per l'Italia (vedi documento allegato). Il motivo? Violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall'articolo 8 della Convenzione.
La vicenda, nota come affaire Strumia contro Italia, ha preso le mosse dalle doglianze di un uomo che, nonostante in sede giudiziaria aveva visto riconosciuto il diritto di incontrare la figlia, non era riuscito a ripristinare per ben otto anni il rapporto con la piccola, a causa della persistente opposizione dell'ex moglie.
Neanche l'intervento degli assistenti sociali è stato sufficiente: il diritto di visita non ha avuto effettiva realizzazione, senza che le autorità nazionali abbiano fatto qualcosa per garantire l'uomo e i suoi rapporti con la figlia.
L'articolo 8, invece, pone in capo agli Stati degli obblighi positivi tra i quali rientrano tutte le misure preparatorie necessarie ad assicurare i diritti dei cittadini.
A detta della Cedu, i tribunali italiani si sono limitati a porre in essere misure stereotipate ed automatiche, contribuendo alla compromissione definitiva del legame familiare, sul quale il far trascorrere tempo senza mantenere i contatti cagiona conseguenze irrimediabili.
Per la Corte, peraltro, la responsabilità dell'Italia è totale e il comportamento delle autorità statali non può trovare giustificazione nel fatto che nel caso di specie il problema fosse stato cagionato dalla condotta ostile dell'ex.
La Convenzione è stata violata e il nostro paese ne deve rispondere.
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