di Marco Amorese - Un principio più volte affermato nel nostro ordinamento è l'illegittimità del danno punitivo. Negli ordinamenti di matrice civilistica il danno non può che avere natura risarcitoria o indennitaria ma non punitiva: la funzione punitiva è infatti demandata allo stato ed alle sue articolazioni.
Questo principio, solidissimo, è poi stato sottoposto ad aggiustamenti: infatti, il legislatore ha introdotto una serie di ipotesi normative dove è evidente una funzione punitiva del risarcimento (ne sono esempio la condanna alle spese di cui all'art. 96 comma 3 c.p.c., ovvero l'introduzione delle astreintes), o dove il risarcimento non è correlato al danno (si pensi alla liquidazione equitativa del danno all'immagine). Con spirito certo self-serving, lo stesso legislatore ha introdotto una serie di aumenti del costo dell'accesso alla giustizia con funzione certamente dissuasiva (ne sono esempio l'aumento del contributo unificato in caso di soccombenza in appello o in Cassazione).
È l'inizio di un cammino verso l'introduzione dei danni punitivi? D'altra parte, i danni punitivi non sono certo un monstre e, anzi, hanno una duplice funzione che può essere importante: in primo luogo, essi si pongono come efficace deterrente alla commissione di illeciti che, magari, hanno scarsa possibilità di essere sanzionati e che la moltiplicazione del rischio risarcitorio può scoraggiare. In secondo luogo (e verrebbe da dire inversamente) essi svolgono una funzione di incentivo per l'attore a promuovere un'azione nei confronti del colpevole dell'illecito.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere proprio sulla legittimità dell'art. 96 comma 3 c.p.c. che stabilisce che "in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata". La questione posta all'attenzione della corte, in particolare, verteva sulla circostanza che la previsione di un pagamento a favore della parte (e non allo stato) attribuiva i benefici della funzione sanzionatoria al privato vincitore introducendo una forma, vietata, di danno punitivo, muro invalicabile del nostro ordinamento civile.
Quasi come i Pink Floyd a Berlino, i giudici di Piazza del Quirinale, nella parte motiva della loro sentenza, paiono voler squarciare il muro del divieto del risarcimento sanzionatorio dichiarando la non incostituzionalità della norma e affermando con perentoria decisione "questa corte concorda con la prospettazione del Tribunale rimettente sulla natura non risarcitoria e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata".
Tuttavia, la rivoluzione qui si ferma. D'altra parte, i Giudici della corte sono più avvezzi al valzer che al rock e il volteggio, dopo un passo avanti, deve tornare indietro e, pertanto, è immediata la specificazione che "l'istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito".
Insomma, forse è un primo passo ma l'affermazione della legittimità del danno punitivo è ancora lontana. Mi pare di vedere i giudici della corte firmare la sentenza canticchiando "io vorrei, non vorrei, ma se vuoi…".
Per approfondimenti, leggi: "Consulta: legittima la condanna per lite temeraria in favore della parte"