di Lucia Izzo - Integra il reato di violazione di domicilio la condotta del nipote che si introduca abusivamente nell'immobile di proprietà della nonna (in parte anche di proprietà della madre) se, nonostante avesse avuto in passato il permesso, questo sia poi stato revocato.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 34892/2016 confermando la condanna a 10 mesi di reclusione nei confronti di un uomo, colpevole del reato di cui all'art. 614 c.p. (Violazione di domicilio).
L'imputato si è introdotto nell'immobile di proprietà della donna e in parte della madre (condivisa con altri parenti) contro la volontà espressa delle due, manifestata attraverso una comunicazione scritta, accompagnata da una comunicazione orale.
Tuttavia, costui sostiene di non aver mai ricevuto alcuna comunicazione scritta e/o orale di revoca del placet prestatogli inizialmente dalla nonna ad occupare l'immobile in questione, evidenziando che agli atti non è provata né la spedizione della missiva recante la revoca dell'autorizzazione scritta, né soprattutto alcuna prova della ricezione della medesima.
Per gli Ermellini il ricorso non merita accoglimento: nonostante l'iniziale autorizzazione ad occupare l'immobile familiare, la madre e la nonna hanno dichiarato di aver provveduto, con comunicazione scritta oltre che con comunicazione orale, a proibire all'imputato l'accesso alla proprietà della famiglia a causa del suo stile di vita e della sua reiterata condotta di coltivazione di piante di marijuana anche in altri immobili del nucleo familiare.
Il delitto di cui all'art. 614 c.p., evidenziano i giudici, persegue chi si introduce o si trattiene nell'abitazione altrui, o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si introduce clandestinamente o con l'inganno. Purchè sussista tale reato è necessario che la volontà dell'avente diritto alla esclusione di altri dalla propria abitazione sia manifestata espressamente ovvero risulti da circostanze univoche.
Non basta, quindi, una semplice presunzione di dissenso ma, tuttavia, quando ci sia la certezza che l'avente diritto non avrebbe consentito l'introduzione nella propria abitazione, se ne avesse avuto tempestiva conoscenza, non vi è semplice presunzione di dissenso, ma la volontà tacita del titolare dello ius prohibendi: ciò si verifica quando, prescindendo dalla clandestinità, l'introduzione avvenga per un fine illecito, essendo in certo contrasto con la volontà dell'avente diritto, pur non manifestata espressamente.
Nel caso di specie, la circostanza che non sia stata prodotta copia della comunicazione scritta non esclude la sussistenza della prova della chiara manifestazione delle ius prohibendi, fondandosi gli elementi di responsabilità a carico dell'imputato innanzitutto sulle dichiarazioni della madre, la quale ha evidenziato espressamente in dibattimento di aver diffidato l'imputato verbalmente a non occupare più gli immobili della famiglia per le dette ragioni.
Tali dichiarazioni, ritenute attendibili dei giudici di merito, non smentite da elementi di segno contrario, avvalorate anzi dal contesto complessivo in cui si inserisce la vicenda (quale la precedente autorizzazione scritta della nonna), danno conto della sussistenza di una chiara manifestazione dello ius excludendi e conseguentemente della configurabilità.
Neppure vale a escludere il reato la circostanza che l'immobile fosse una baracca agricola, non riconducibile a luogo di privata dimora in quanto disabitata: il Collegio rammenta che per la giurisprudenza, ai fini della configurazione del reato di violazione di domicilio, il concetto di privata dimora è più ampio di quello di casa d'abitazione, comprendendo ogni altro luogo che, pur non essendo destinato a casa di abitazione, venga usato, anche in modo transitorio e contingente, per lo svolgimento di una attività personale rientrante nella larga accezione di libertà domestica.
Cass., V sez. pen., sent. 34892/2016• Foto: 123rf.com