di Marina Crisafi - Chi si sposa e non paga il conto del pranzo di matrimonio rischia il carcere. Questo è quanto affermato dal Tribunale di Trento che, con la sentenza n. 353/2016 qui sotto allegata, ha condannato una coppia di coniugi per il reato di insolvenza fraudolenta, in quanto dissimulando lo stato di insolvenza hanno pranzato con tutti gli invitati al ricevimento senza poi saldare il conto.
Nella vicenda, i due imputati avevano prenotato la sala per una trentina di invitati, deciso il menù e stabilito il prezzo complessivo, ammontante a poco più di 2.400 euro.
Arrivato il giorno del ricevimento tutto si svolgeva regolarmente e l'indomani gli sposi portavano via persino i dolci non utilizzati. Sin dal momento della prenotazione, il proprietario del ristorante non chiedeva alcuna caparra né altre garanzie, fidandosi dello sposo che aveva già usufruito del locale per un precedente ricevimento.
Ma, la fiducia veniva mal riposta perché il conto non veniva mai saldato. Sollecitati telefonicamente dal ristoratore, i coniugi infatti rispondevano in modo evasivo promettendo l'adempimento e in più occasioni si erano pure spacciati al telefono per appartenenti alla guardia di finanza, millantando di essere "sotto protezione" della stessa, alla quale sarebbe toccato pagare il conto.
I due neosposi venivano quindi tratti in giudizio innanzi al tribunale con decreto di citazione diretta ex art. 550 c.p.p. e il giudice trentino non ha dubbi sulla qualificazione del fatto come reato. "La differenza tra il mero inadempimento civilistico e l'insolvenza fraudolenta è da individuare nell'intenzione di non adempiere all'obbligazione contratta e nell'attuazione di condotte volte a dissimulare la propria incapacità di far fronte al debito" si legge in sentenza. Ai fini della sussistenza del reato, infatti, ha precisato il tribunale richiamando la giurisprudenza della Cassazione, "si è osservato che la condotta di chi tiene il creditore all'oscuro del proprio stato di insolvenza al momento di contrarre l'obbligazione assume rilievo quando sia legata al preordinato proposito di non adempiere la dovuta prestazione, mentre non si configura alcuna ipotesi criminosa, ma solo illecito civile, nel mero inadempimento
non preceduto da alcuna intenzionale preordinazione" (Cass. 12/10/2006 n. 34192) e che "anche il silenzio può assumere rilievo quale forma di dissimulazione del proprio staio di insolvenza, quando tale stato non sia manifestato all'altra parte contraente ed il silenzio su di esso sia legato al preordinato proposito di non adempiere, cioè, quando sin dai momento in cui il contratto è staio stipulato vi era intenzione di non far fronte all'obbligo o agli obblighi scaturenti dal rapporto contrattuale" (Cass. sez. II, 14/7/2003, n. 28454).Nel caso di specie, sono molti gli elementi istruttori fanno convergere univocamente sull'integrazione della fattispecie: dalla pregressa conoscenza del cliente al ritorno il giorno successivo per prelevare i dolci, passando per le plurime assicurazioni di pagamento e per la finzione relativa all'interessamento delle forze dell'ordine. Tutto conduce per il tribunale a desumere l'intenzione di non voler provvedere al pagamento. Quanto all'elemento soggettivo, "sussiste inoltre il dolo, da ritenere specifico, consistente nella volontà di non adempiere, come si desume dalle circostanze in fatto sopra richiamate". Per cui, condanna confermata con pena ritenuta congrua, date le circostanze, a 6 mesi di reclusione, con concessione della sospensione condizionale.
Tribunale Trento, sentenza n. 353/2016
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