Avv. Prof. Stefano Lenghi - Con sentenza 13 giugno 2016 n.12101 la Corte di legittimità ha affermato il principio secondo cui il datore di lavoro, quando licenzia per giustificato motivo obiettivo, oltre a dimostrare la sussistenza delle ragioni aziendali poste a base del licenziamento (ad es., la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente), ha, altresì, l'onere di provare l'impossibilità di una sua utile riallocazione in mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate (impossibilità del c.d. repêchage) e l'assenza di nuove assunzioni, per un congruo periodo di tempo successivo al licenziamento, di lavoratori addetti a mansioni equivalenti - per il tipo di professionalità richiesta - a quelle espletate dal dipendente licenziato.
La vicenda processuale
Il Tribunale di Catanzaro, accogliendo il ricorso con cui il sig. D.C. aveva impugnato il licenziamento per giustificato motivo obiettivo intimatogli il 10 febbraio 2006 dalla società T. srl, ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente ex art.18 della legge n.300/1970.
Con sentenza depositata il 04 settembre 2012 la Corte d'Appello di Catanzaro riformava la sentenza
emessa dal giudice di prime cure, sul presupposto che: a) la società aveva compiutamente provato l'avvenuta soppressione del posto di lavoro del dipendente in conseguenza d'un riassetto organizzativo finalizzato alla riduzione dei costi, vista la contrazione dei risultati economici registratasi negli anni immediatamente anteriori e successivi al licenziamento; b) il lavoratore non aveva provato la possibilità per il datore di ricollocarlo in altre posizioni lavorative o che il datore avesse effettuato nuove assunzioni in mansioni compatibili con quelle espletate dal lavoratore licenziato.Contro la decisione della Corte territoriale il lavoratore D.C. proponeva ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi, di cui il Supremo Consesso ha accolto il primo, con conseguente assorbimento del secondo, affermando il principio più sopra riportato.
Le motivazioni addotte dalla Cassazione
Accogliendo il primo motivo la Suprema Corte ricorda subito che, per sua costante giurisprudenza maturata in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente licenziato (a tal fine non bastando un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale), ma anche l'impossibilità di una sua utile riallocazione in mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate, dovendo egli dimostrare l'impossibilità del suo c.d. repêchage, poichè il recesso può giustificarsi solo come extrema ratio (a sostegno della tesi, di cui al giudicato in commento, richiamiamo l'attenzione del lettore sulle seguenti sentenze, alcune delle quali richiamate anche nella motivazione della pronunzia de qua: Cass., Sez.Lav., 22 marzo 2016 n.5592; Cass., Sez. Lav., 24 giugno 2015 n. 13116; Cass., Sez.Lav.,11 giugno 2014 n. 13112; Cass., Sez.Lav., 01 agosto 2013 n.18416; Cass., Sez.Lav.,26 marzo 2010 n.7381; Cass., Sez.Lav., 20 maggio 2009 n.11720; Cass., Sez.Lav., 03 agosto 1998 n.7620; Cass., Sez. Lav., 05 settembre 1997 n.8555 e numerose altre conformi).
In altri termini, si precisa nella motivazione della sentenza in commento che, come statuito da costante giurisprudenza, "per la validità d'un licenziamento per giustificato motivo oggettivo non basta che esso sia l'effetto della soppressione del reparto o del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, ma è necessario che l'azienda sia impossibilitata al suo repêchage, ossia non abbia come riutilizzarlo, consideratane la professionalità raggiunta in altra posizione lavorativa e/o in altra dipendenza aziendale analoga a quella soppressa. Il relativo onere probatorio grava sul datore di lavoro, cui incombe anche la prova di non avere effettuato, per un congruo periodo di tempo dopo il recesso, nuove assunzioni in qualifiche analoghe a quella del lavoratore licenziato (cfr., ex pluribus, Cass. n. 13112/14 e Cass. n. 21579/08)".
La Corte di legittimità critica decisamente l'impugnata sentenza della Corte territoriale, in quanto:
"a) dopo aver ritenuto riferibile il licenziamento del ricorrente alla soppressione della posizione lavorativa cui era adibito presso il reparto pesatura, ha statuito di non dover verificare la circostanza di nuove assunzioni effettuate per l'esercizio di mansioni analoghe a quelle di D.C. in quanto la relativa eccezione sarebbe stata, oltre che tardiva perchè sollevata solo in appello, comunque irrilevante per mancata allegazione, da parte del lavoratore, del fatto che tali nuove assunzioni avrebbero riguardato il settore cui il ricorrente era assegnato";
b) ha ritenuto di non dover verificare l'impossibilità del c.d. repêchage del ricorrente in base al rilievo che costui non avrebbe individuato altre postazioni lavorative in azienda, ove avrebbe potuto essere utilmente riallocato, così sollevando dal relativo onere probatorio il datore di lavoro".
In ordine al punto a) il Supremo Collegio rileva che l'errore in cui è incorsa la Corte territoriale è duplice: da un lato ha qualificato l'affermazione delle nuove assunzioni come eccezione, mentre si tratta di una mera circostanza di fatto oggetto della prova (negativa, nei termini di cui sopra si è detto) gravante sul datore di lavoro; dall'altro, ha addossato al lavoratore l'onere di allegare tale circostanza, che invece rientra nell'onere probatorio (e quindi, a monte, nel presupposto onere di allegazione) dell'azienda.
Relativamente al punto b), la sentenza in commento argomenta che l'asserzione della Corte d'Appello "si basa su una consistente ed antica - ancorché tralaticia - giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr. Cass. n. 19923/15 Cass. n. 4920/14; Cass. n. 25197/13; Cass. n. 18025/12; Cass. n. 11775/12 Cass. n. 6501/12; Cass. n. 3040/11; Cass. n. 7381/10; Cass. n. 6559/10 Cass. n. 22417/09; Cass. n. 21579/08; Cass. n. 4068/08; Cass. n. 12769/05 Cass. n. 10916/04; Cass. n. 12037/03; Cass. n. 8396/02; Cass. n 13134/2000; Cass. n. 9768/98; Cass. n. 9369/93), secondo cui, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, l'onere del datore di lavoro di provare l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte è sostanzialmente condizionato a che lo stesso lavoratore-attore collabori con il convenuto nell'accertamento di un possibile reimpiego, indicando gli altri posti in cui potrebbe essere utilmente riallocato".
"Si tratta d'un orientamento interpretativo", assume la Corte del diritto, "che, rimeditato alla luce delle considerazioni di coerenza dogmatica e sistematica che seguono, questa Corte - condividendo il principio espresso anche dalla recentissima Cass. n. 5592/16 - ritiene di non dover mantenere".
A questo punto, lasciamo che siano le stesse illuminanti parole della Suprema Corte a convincere della assoluta fondatezza degli assunti sposati dai supremi giudici.
"Esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all'interno dell'azienda significa, se non invertire sostanzialmente l'onere della prova (che - invece - l'art. 5 legge n. 604/66 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all'altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità.
Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione (sull'impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. n. 21847/14).
E siccome il creditore, provata la fonte legale o negoziale del proprio diritto, ha poi solo l'onere di allegare l'altrui inadempimento, mentre il debitore deve provare i fatti impeditivi, modificativi od estintivi della pretesa azionata (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 13533/01 e successiva conforme giurisprudenza), così - nel campo specifico che ne occupa - il lavoratore, creditore della reintegra, una volta provata l'esistenza d'un rapporto di lavoro a tempo indeterminato risolto dal licenziamento intimatogli, deve solo allegare l'altrui inadempimento, vale a dire l'illegittimo rifiuto di continuare a farlo lavorare oppostogli dal datore di lavoro in assenza di giusta causa o giustificato motivo, mentre su questi incombe allegare e dimostrare il fatto estintivo, vale a dire l'effettiva esistenza d'una giusta causa o d'un giustificato motivo di recesso.
E in tale ultimo fatto estintivo (cioè nel giustificato motivo oggettivo di licenziamento) della cui prova è onerato il datore di lavoro rientra pure l'impossibilità del c.d. repêchage (come da costante giurisprudenza sopra ricordata).
Merita una rivisitazione critica anche l'unico fondamento teorico della precedente giurisprudenza - qui non condivisa - su cui si è basata la sentenza impugnata.
Infatti, non appare ipotizzabile un dovere dell'attore di cooperare con il convenuto affinché questi assolva all'onere probatorio che gli è proprio (dovere di cooperare che non figura menzionato in nessuna altra ipotesi nella giurisprudenza di questa Corte): il dovere di cooperazione fra le parti del rapporto opera solo sul piano sostanziale (v. artt. 1175 e 1206 c.c.), non su quello processuale, ispirato - invece - ad una leale, ma pur sempre dialettica, contrapposizione.
Dunque, appare fuori dal sistema l'ipotesi ermeneutica che l'attore debba in qualche modo collaborare con il convenuto per facilitargli la prova riducendogli l'area del thema probandum mediante apposite allegazioni.
"Deve notarsi - per altro - che la conclusione qui accolta non espande oltre misura l'onere di allegazione e prova del datore di lavoro in tema di impossibilità del c.d. repêchage, perchè, una volta escluso (alla stregua del costante insegnamento di questa Corte sopra ricordato) che il lavoratore licenziato abbia il diritto di essere comparato ad altri colleghi di lavoro affinché la scelta del licenziamento cada su uno di loro, la prova dell'impossibilità del c.d. repêchage in sostanza si risolve nell'agevole dimostrazione di non avere posizioni lavorative scoperte o di averne in mansioni non equivalenti per il tipo di professionalità richiesta, queste ultime eventualmente già ricoperte o destinate ad esserlo mediante nuove assunzioni.
Né l'individuazione, da parte del lavoratore, delle alternative possibilità di riutilizzo all'interno dell'azienda può intendersi come onere di contestazione (del giustificato motivo oggettivo), in mancanza del quale non sorge l'avverso onere probatorio.
Un assunto del genere costituirebbe inesatta applicazione del principio di non contestazione che governa il rito speciale e ora, dopo la novella dell'art. 115 c.p.c. ad opera dell'art. 45 legge n. 69/09, anche quello ordinario.
Infatti, già puramente e semplicemente negando, nell'atto introduttivo del giudizio, l'esistenza d'una giusta causa o d'un giustificato motivo di licenziamento il lavoratore-creditore allega l'altrui inadempimento e, nel contempo, preventivamente nega il fatto estintivo (la giusta causa o il giustificato motivo, appunto) che verrà poi eccepito da parte datoriale, con conseguente fissazione di quello che sarà il thema probandum.
E che giusta causa o giustificato motivo costituiscano fatti estintivi dell'altrui pretesa di proseguire il rapporto lavorativo (e non già che la loro mancanza integri fatto costitutivo del diritto del lavoratore) si evince dall'art. 5 legge n. 604/66, che attribuisce al datore di lavoro l'onere probatorio a riguardo, così implicitamente qualificando giusta causa e giustificato motivo come fatti estintivi.
Ed è proprio l'art. 5 legge n. 604/66 che induce ad escludere che l'onere della prova dell'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza sia posto, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore sotto forma di onere di segnalare analoghe postazioni di lavoro, cui essere assegnato (cfr. in tal senso Cass. n. 8254/92, richiamata più di recente da Cass. n. 4460/15).
Né può dirsi che l'impossibilità del repêchage costituisca autonomo fatto estintivo rispetto all'esistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive tali da determinare la soppressione d'un dato posto di lavoro e, come tale, richieda un'apposita autonoma contestazione da parte del lavoratore: si tratta - invece - di due aspetti del medesimo fatto estintivo (il giustificato motivo oggettivo, appunto), fra loro inscindibili perché l'uno senza l'altro inidoneo a rendere valido il licenziamento (alla stregua della costante giurisprudenza sopra richiamata).
Pertanto, avendo il lavoratore già preventivamente negato una giusta causa o un giustificato motivo di recesso, non deve formulare altra specifica contestazione a fronte delle contrarie allegazioni.
In altre parole, la contestazione da parte del convenuto dei fatti già affermati o già negati nell'atto introduttivo del giudizio non ribalta sull'attore l'onere di "contestare l'altrui contestazione", dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo.
Diversamente, il processo si trasformerebbe in una sorta di gioco di specchi contrapposti che rinviano all'infinito le immagini riflesse, per cui ciascuna parte avrebbe sempre l'onere di contestare l'altrui contestazione e così via, in una sorta di agone dialettico in cui prevale l'ultimo che contesti (magari con mera formula di stile) l'avverso dedotto (come già osservato da Cass. n. 18046/14).
Ad analoghe conclusioni si perviene ove ci si ponga sotto la visuale della vicinanza alla concreta possibilità dell'allegazione, non diversamente da quanto accade, in materia di individuazione della parte onerata della prova, con l'utilizzo del principio di riferibilità o di vicinanza ad essa (per una delle sue molteplici applicazioni v., di recente, Cass. n. 1665/16).
Invero, mentre il lavoratore non ha accesso (o non ne ha di completo) al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione.
E ciò è ancor più vero se si considera che, all'atto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni di carattere produttivo o tecnico-organizzativo, il riassetto aziendale è ancora tutto in divenire: ciò rende persino più difficile, per il dipendente, attingere alle informazioni (già di per sé quantitativamente e qualitativamente inferiori a quelle del datore di lavoro che tale riassetto abbia deciso) atte ad identificare concrete alternative postazioni ove essere utilmente ricollocabile.
In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo. Consegue la cassazione della sentenza in relazione al motivo accolto ed il rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Reggio Calabria, che dovrà, nell'ordine, verificare:
1) se il licenziamento di D.C. sia stato effettivamente conseguenza d'un riassetto tecnico-organizzativo o produttivo del reparto cui era adibito;
2) se e quali nuove assunzioni siano state eventualmente effettuate dalla T. S.r.l. per un congruo periodo di tempo successivo al licenziamento per cui è causa e se ciò abbia riguardato lavoratori addetti a mansioni equivalenti - per il tipo di professionalità richiesta - a quelle espletate dall'odierno ricorrente, senza limitarsi unicamente a confrontare il suo livello di inquadramento contrattuale con quello applicato ad eventuali nuovi assunti, atteso che le declaratorie contrattuali possono condividere aree di confine e dipendere dalla maggiore o minore anzianità di servizio;
3) se al momento del licenziamento fossero presenti in azienda altre posizioni lavorative in cui, sempre per il tipo di professionalità richiesta, fosse utilmente ricollocabile l'odierno ricorrente;
4) se l'assegnazione di D.C. al reparto pesatura sia stata preordinata al fine di espellerlo dal ciclo lavorativo.
Nel farlo dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:
"Il lavoratore, creditore della reintegra, una volta provata l'esistenza d'un rapporto di lavoro a tempo indeterminato risolto dal licenziamento intimatogli, deve solo allegare l'altrui inadempimento, vale a dire l'illegittimo rifiuto di continuare a farlo lavorare oppostogli dal datore di lavoro in assenza di giusta causa o giustificato motivo, mentre su questi incombe allegare e dimostrare il fatto estintivo del diritto azionato, vale a dire l'effettiva esistenza d'una giusta causa o d'un giustificato motivo di recesso".
"In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente licenziato (a tal fine non bastando un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale), l'impossibilità di una sua utile riallocazione in mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate (impossibilità del c.d. repêchage) e l'assenza di nuove assunzioni, per un congruo periodo di tempo successivo al licenziamento, di lavoratori addetti a mansioni equivalenti - per il tipo di professionalità richiesta - a quelle espletate dal dipendente licenziato.".
"Poiché onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione, non incombe sul lavoratore l'onere di segnalare postazioni di lavoro - analoghe a quella soppressa e alla quale era adibito - in cui essere utilmente riallocato".
Riflessioni in punto di diritto in merito alla linea di pensiero espressa dal Supremo Collegio
La sentenza in commento è, ad avviso di chi scrive, meritevole di particolare apprezzamento, perchè, in sostanza, integra e perfeziona, attraverso argomentazioni esaustive del tutto convincenti e coerenti con il sistema giuridico sostanziale e processuale, lo sviluppo delle tesi svolte dai precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte, che hanno sposato lo stesso orientamento, di cui la sentenza stessa rappresenta, in un certo senso, il punto di completamento.
Dal canto nostro, desideriamo soltanto rimarcare che all'assunto fatto proprio dalla Suprema Corte del diritto si perviene anche attraverso una ricostruzione del concetto di giustificato motivo obiettivo, che prescinde dall'analisi del profilo squisitamente giusprocessualistico dell'onere della prova e dell'onere di allegazione condotta dalla Corte di legittimità, analisi che, comunque, fornisce ulteriore ineccepibile conferma della validità dell'assunto stesso.
Rivisitiamo, adunque, tale concetto, espresso dall'art.3 della legge 15 luglio 1966 n.604, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo obiettivo è determinato "da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".
Com'è noto, il licenziamento in questione è un provvedimento che viene adottato non per sanzionare un fatto-comportamento imputabile a colpa del lavoratore (la qualifica di "obiettivo" che viene apposta al motivo giustificante il recesso vuol essere proprio acclarante di ciò), tant'è vero che si parla di licenziamento per ragioni economiche o per ragioni aziendali.
Più precisamente, tenendo conto della ricostruzione che dottrina e giurisprudenza hanno nei decenni operato, e formulando un concetto, che, così espresso nel suo profilo generale, riteniamo faccia comprendere meglio di ogni altro la nozione in questione, potremmo meglio affermare che il giustificato motivo obiettivo sussiste quando in relazione ad un determinato dipendente, prescindendosi da ogni considerazione di colpa o responsabilità del medesimo, emerge una situazione in forza della quale il datore di lavoro, per una delle ragioni sotto indicate, non ha più la possibilità di continuare ad utilizzare proficuamente il dipendente stesso nell'ambito aziendale, per cui la prosecuzione del rapporto di lavoro sarebbe del tutto antieconomica, del tutto incompatibile ed in contrasto con l'efficiente funzionamento dell'apparato tecnico-organizzativo o produttivo dell'azienda.
Le ragioni specifiche legittimanti il recesso per giustificato motivo obiettivo sono enucleabili da una copiosa cinquantennale produzione giurisprudenziale e possono essere ricondotte, sotto il profilo logico-sistematico, alla seguente fondamentale dicotomia:
*) ragioni che sono espressione di specifiche esigenze dell'impresa e che, riflettendosi sulla posizione lavorativa del dipendente, pur prescindendosi da alcuna colpa del prestatore, non rendono più economicamente proficua la continuazione della collaborazione con il dipendente stesso nella posizione da lui ricoperta. Dette ragioni sono rappresentate o da una situazione di grave crisi dell'impresa o da un processo di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale o da una riconversione dell'attività produttiva o dall'introduzione di innovazioni tecnologiche o, comunque, dall'adozione di decisioni di politica aziendale (di razionalizzazione o riordino dell'assetto organizzativo), che, interessando o riverberandosi sulla posizione ricoperta dal lavoratore, impongono la soppressione del posto di lavoro o dell'unità produttiva in cui opera il lavoratore.
Si pensi, tanto per esemplificare, al caso dell'azienda che, dovendo sopprimere un reparto produttivo, perchè la produzione che vi si realizza non è più remunerativa, non può più utilizzare proficuamente i lavoratori che vi operano; o al caso dell'azienda che, nell'ambito di un processo di ristrutturazione, revisione organizzativa e/o riconversione produttiva finalizzato al rilancio della produttività, anche attraverso il contenimento dei costi, elimina personale che, alla luce degli interventi di riorganizzazione, viene a risultare in eccesso o improduttivo o non proficuamente utilizzabile; o al caso del passaggio da una rete di vendita diretta ad una indiretta, tramite agenti; o al caso della esternalizzazione di un servizio, che determina l'inutilizzabilità di alcuni dipendenti; o al caso dell'introduzione di una tecnologia che assorbe il lavoro di alcuni addetti, la cui prestazione si rivela, pertanto, non più utilizzabile; o al caso del lavoratore che abbia superato il periodo di comporto per malattia previsto dalla contrattazione collettiva; o al caso in cui la prestazione sia resa dal lavoratore con modalità tali da non poter essere proficuamente utilizzata all'interno dell'azienda, come nell'ipotesi del dipendente che ponga in essere assenze per malattia di breve durata, ma effettuate sistematicamente, comunicate all'ultimo momento, agganciate ai giorni di riposo del lavoratore e spesso avvenute nei turni di fine settimana o notturni, che, pur non superando il periodo di comporto, rendano del tutto inutile la prestazione lavorativa; o al caso di un lavoratore sottoposto ad un provvedimento di custodia cautelare per un periodo assai lungo o, comunque, superiore a quello di conservazione del posto previsto dalla contrattazione collettiva, sempreché l'azienda dimostri che il protrarsi dell'assenza del lavoratore, in relazione alla durata della detenzione o degli arresti domiciliari, nonchè al tipo di posizione ricoperta in azienda dal lavoratore e alle responsabilità ad essa inerenti, non consenta una proficua prosecuzione del rapporto di collaborazione con il prestatore;
**) ragioni che non riflettono esigenze organizzative o tecnico-produttive dell'azienda, bensì soltanto un certo status del lavoratore, in quanto sono venute meno una o più delle condizioni psico-fisiche o giuridiche necessarie per poter ricoprire la posizione che gli è stata contrattualmente assegnata (si pensi al caso della sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnategli o al caso del lavoratore guardia giurata, a cui il prefetto abbia ritirato la licenza o al caso del lavoratore autista o addetto al trasporti di merci o persone, ai quali sia stata ritirata la patente).
Il giustificato motivo obiettivo è, pertanto, una ragione che non consente al datore di lavoro di continuare ad utilizzare proficuamente, nell'ambito dell'organizzazione della sua impresa, un proprio dipendente e che legittima, di conseguenza, l'atto risolutorio solo se il datore dimostra che non esiste nell'ambito dell'intera impresa alcuna posizione lavorativa in cui sia possibile riallocare proficuamente il dipendente stesso. Ciò in considerazione del fatto che, estromettendo definitivamente il lavoratore dall'azienda, il licenziamento può considerarsi giustificato soltanto se il datore dimostra che l'impossibilità di proseguire la collaborazione con il medesimo investe l'intera impresa.
Da ciò consegue che, per sua natura, il concetto di giustificato motivo obiettivo è ontologicamente costituito da due elementi:
1) le ragioni, di cui all'art.3 della legge n.604/1966, per effetto di una o più delle quali il datore non può continuare ad utilizzare proficuamente il dipendente là dove è organizzativamente inserito;
2) l'impossibilità di utilizzare proficuamente il dipendente in alcun'altra posizione lavorativa in qualche modo coerente con la professionalità acquisita dal dipendente stesso (c.d. impossibilità del repêchage).
Alla luce di quanto precede, e stante il disposto dell'art.5 della legge n.604/1966, secondo cui "l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro", si evince subito inequivocabilmente che, essendo il concetto di giustificato motivo obiettivo costituito dai surrichiamati elementi 1) e 2), il datore di lavoro ha, ed in via esclusiva, l'onere di provare la sussistenza di ambedue gli elementi stessi. Vale a dire che compete in via esclusiva al datore di lavoro, che vuole dimostrare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo obiettivo, provare non solo la effettiva presenza delle ragioni economiche o organizzative che hanno determinato il licenziamento del dipendente, ma anche la mancanza di posizioni di lavoro o mansioni libere in azienda in cui poter riallocare utilmente il medesimo, e ciò indipendentemente dal fatto che il lavoratore ne abbia o meno dedotto l'esistenza in giudizio.
Di fronte a tale coerente ed inoppugnabile conclusione, non ha, pertanto, neppure più senso distinguere, in relazione al giustificato motivo obiettivo, tra onere della prova ed onere di allegazione, perché il secondo, che è un momento di attuazione del primo resta, per forza di cose, assorbito nel primo onere stesso, posto dalla legge ad esclusivo carico del datore di lavoro.
Al lavoratore, d'altra parte, non potrebbe essere accollato alcuno degli oneri in questione, non solo in virtù del disposto dell'art.5 della legge n.604/1966, il cui tenore letterale categorico non tollera dubbio alcuno, ma anche perchè, come egregiamente stigmatizzato pure dalla sentenza in commento, è solo il datore di lavoro che, avendo una conoscenza completa ed in divenire dell'intero organismo aziendale (in quanto unico titolare del potere di conferire e modificare l'assetto organizzativo aziendale in conformità agli obiettivi da raggiungere), è l'unico soggetto che può essere in grado di valutare l'eventuale sussistenza di posizioni in cui potrebbe essere utilmente inserito il lavoratore. Rebus sic stantibus, diciamo pure che un eventuale atto con cui il lavoratore dovesse prospettare al datore l'esistenza di posizioni in cui ritenesse di poter essere utilmente inserito, sarebbe un atto del tutto inconferente, perchè non potrebbe in alcun modo entrare nell'economia dell'onere della prova del giustificato motivo obiettivo, sia pure come attività espressa dal lavoratore in un ruolo di collaborazione con il datore di lavoro. Né, tanto meno, come ha fatto l'indirizzo giurisprudenziale di segno opposto (privo, anche a nostro avviso, di ogni giuridico fondamento), sarebbe legittimo pretendere che all'onere della prova dell'impossibilità del repêchage debba, quanto meno, concorrere anche il lavoratore allegando l'indicazione di posizioni in cui potrebbe essere, a suo giudizio, utilmente inserito, e ciò proprio per le ragioni tutte sopra richiamate, il cui fondamento giuridico appare del tutto inconfutabile.
Non si può, da ultimo, che concordare con la sentenza de qua anche sull'assunto cui essa è pervenuta, secondo cui, ai fini della legittimità del licenziamento, il datore di lavoro deve, altresì, dimostrare di non aver effettuato nuove assunzioni di risorse umane (assegnate a mansioni professionalmente equivalenti a quelle del dipendente licenziato) per un congruo periodo di tempo successivo al licenziamento. Tale assunto scaturisce dall'ovvia considerazione che, se il datore licenzia un dipendente per soppressione del posto di lavoro e dopo un mese assume un altro lavoratore assegnandolo alle stesse mansioni di quello licenziato, è logico e conseguenziale desumere dal comportamento datoriale l'inesistenza della causale "soppressione del posto di lavoro" posta a fondamento del licenziamento. E' chiaro, in ogni caso, che il concetto di "congruità", che sta a rappresentare la necessità che tra il licenziamento e la nuova assunzione non sia intercorso un lasso di tempo troppo breve, deve poter essere sempre, comunque, correlabile, a nostro avviso, con mutamenti organizzativi intervenuti dopo il licenziamento, posto che, in totale assenza di mutamenti organizzativi successivi al provvedimento risolutorio, ove la nuova assunzione non risultasse giustificata da obiettive sopravvenute specifiche ragioni tecnico-produttive dell'impresa (fondate magari su nuove decisioni di politica aziendale), dovrebbe ragionevolmente concludersi per l'illegittimità dell'adottato licenziamento, anche se il lasso di tempo intercorso tra il licenziamento e la nuova assunzione non fosse stato poi così breve.
A diversa conclusione dovrà, invece, ovviamente, pervenirsi, ove la nuova assunzione fosse avvenuta per rimpiazzare un lavoratore licenziato per giustificato motivo obiettivo in forza di una delle ragioni, di cui al punto **), avendo l'azienda la necessità di ricoprire una posizione rimasta scoperta a causa del venir meno delle condizioni di salute del lavoratore o dei titoli legali necessari al medesimo per poter svolgere quel tipo di attività.
Indicazioni sul piano operativo scaturenti dal magistero della Suprema Corte
Come sempre nei nostri interventi, ci piace concludere anche lo sviluppo di questa nostra analisi fornendo, ai professionals aziendali della gestione dei rapporti di lavoro ed ai legali che li assistono, modelli di comportamento ai quali conformare la loro operatività ai fini della migliore tutela della posizione aziendale in caso di eventuale contenzioso giudiziario:
a) il giustificato motivo obiettivo di licenziamento individuale sussiste quando in relazione ad un determinato dipendente, prescindendosi da ogni considerazione di responsabilità o di comportamento colpevole del medesimo, emerge una situazione in forza della quale il datore di lavoro non ha più la possibilità di continuare ad utilizzare proficuamente il dipendente stesso nell'ambito aziendale.
Le ragioni legittimanti il recesso o sono espressione di specifiche esigenze economiche od organizzative dell'impresa che, riflettendosi sulla posizione lavorativa del dipendente, pur prescindendosi da alcuna colpa del prestatore, non rendono più economicamente proficua la continuazione della collaborazione con il dipendente stesso nella posizione da lui ricoperta oppure riflettono un certo status del lavoratore, in quanto sono venute meno una o più delle condizioni psico-fisiche o giuridiche necessarie per poter ricoprire la posizione che gli è stata contrattualmente assegnata.
Tali ragioni, riportandoci a quanto enucleato nei precedenti punti *) e **), possono così rischematizzarsi:
a1) decisione di politica aziendale (in attuazione di un progetto di razionalizzazione e/o riordino dell'assetto organizzativo o di riduzione dei costi), con cui si decide la soppressione del posto di lavoro o dell'unità in cui il dipendente opera, soppressione di cui il datore dovrà fornire la prova, allegando, altresì, il provvedimento aziendale con cui è stata disposta;
a2) decisione di politica aziendale in caso di riorganizzazione, ristrutturazione aziendale o riconversione produttiva avviate dall'impresa, sempreché il datore dimostri che tali processi, riflettendosi direttamente sulla posizione del lavoratore, ne postulano l'eliminazione, comportando, altresì, l'impossibilità di continuare ad utilizzare proficuamente il dipendente nell'intero ambito organizzativo dell'impresa stessa;
a3) decisione in caso di crisi aziendale postulante l'esigenza di un ridimensionamento di organici, che si ripercuote direttamente sulla posizione del lavoratore, sempre fermo restando l'onere datoriale di dimostrare l'incidenza specifica della richiamata esigenza sulla posizione del lavoratore, nonchè l'impossibilità di riallocarlo in altre mansioni di professionalità equivalente;
a4) decisione aziendale adottata perchè la prestazione è resa dal lavoratore con modalità tali da non poter essere proficuamente utilizzata all'interno dell'azienda (si pensi al dipendente che ponga in essere assenze per malattia di breve durata, ma effettuate sistematicamente, comunicate all'ultimo momento, agganciate ai giorni di riposo del lavoratore e spesso avvenute nei turni di fine settimana o notturni, che, pur non superando il periodo di comporto, rendano del tutto inutile la prestazione lavorativa. Su tale ipotesi richiamiamo l'attenzione sul nostro articolo "Nota a sentenza. Eccessiva morbilità del lavoratore tale da rendere improficua la prestazione: per la Cassazione giustificato motivo obiettivo di licenziamento", pubblicato sul Portale www.studiocataldi.it del 28 ottobre 2014 e sulla Newsletter di studiocataldi.it del 03 novembre 2014);
a5) decisione aziendale adottata a seguito dell'introduzione di una nuova tecnologia, che assorbe il lavoro di alcuni addetti, la cui prestazione si rivela non più utilizzabile nell'ambito aziendale;
a6) decisione aziendale adottata perchè, avendo l'assenza per malattia del lavoratore superato la durata massima del periodo di comporto prevista dalla contrattazione collettiva, la prosecuzione del rapporto si rivelerebbe improficua o inutile;
a7) decisione aziendale adottata nel caso di un lavoratore sottoposto ad un provvedimento di custodia cautelare per un periodo assai lungo o, comunque, superiore a quello di conservazione del posto previsto dalla contrattazione collettiva, sempreché l'azienda dimostri che il protrarsi dell'assenza del lavoratore, in relazione alla durata della detenzione, nonchè al tipo di posizione ricoperta in azienda dal lavoratore e alle responsabilità ad essa inerenti, sia in contrasto con l'efficiente funzionamento dell'unità in cui è inserito il dipendente, non giustificando, sul piano della produttività, una proficua prosecuzione del rapporto di collaborazione con il prestatore;
a8) decisione aziendale adottata a fronte di una sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore alle mansioni assegnategli, sempreché il datore dimostri l'inesistenza o l'impossibilità di riallocarlo in altre mansioni nelle quali, a fronte della sua professionalità e del suo intervenuto status psico-fisico, possa essere utilmente impiegato;
a9) decisione aziendale adottata perchè il lavoratore non è più in possesso delle condizioni giuridiche per poter rendere la prestazione, sempreché il datore dimostri l'impossibilità di riallocarlo in altre mansioni di professionalità equivalente (abbiamo più sopra richiamato i casi della guardia giurata, a cui il prefetto abbia ritirato la licenza o dell'autista o addetto ai trasporti di merci, ai quali sia stata ritirata la patente);
b) compete in via esclusiva al datore di lavoro, che vuole dimostrare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo obiettivo, provare non solo la effettiva presenza delle ragioni economiche o organizzative che hanno determinato il licenziamento del dipendente, ma anche la mancanza, all'interno dell'intera azienda, di posizioni di lavoro o mansioni libere coerenti con la professionalità di cui egli è in possesso, da poter assegnare al lavoratore, e ciò indipendentemente dal fatto che il lavoratore ne abbia o meno dedotto l'esistenza in sede stragiudiziale o giudiziale. Siamo ben consci che in un'azienda di grandi dimensioni tale onere dell'impossibilità del repêchage possa comportare una sorta di probatio diabolica, che dovrà essere al giudice di merito fornita organici alla mano, ma tant'è….;
c) il datore di lavoro dovrà, pertanto, assolvere i due oneri probatori nella lettera di licenziamento, la quale dovrà addurre fatti analitici e concreti, nonchè corredati di elementi di specificità, verificabili sul campo, circa la sussistenza delle "ragioni" legittimanti il provvedimento risolutorio e l'inesistenza, all'interno dell'intero organismo aziendale, di posizioni di lavoro in cui il prestatore possa essere utilmente inserito in coerenza con la professionalità in suo possesso. Il giudice di merito, poi, ove lo ritenga necessario od opportuno, potrà chiedere al datore, in sede di sviluppo del contenzioso giudiziario, di fornire ulteriori elementi di informativa, fermo restando il suo potere di disporre, su istanza di parte, l'accesso sul luogo di lavoro, al fine di integrare le conoscenze acquisite e rendersi conto di persona delle caratteristiche di struttura e di funzionamento della realtà organizzativa aziendale, nonchè di disporre, se ne ravvisi l'utilità, l'esame dei testimoni sul luogo di lavoro stesso (art.421, terzo comma, c.p.c.);
d) il datore non dovrà procedere all'assunzione di uno o più lavoratori da adibire ad attività, per la cui soppressione era stato in precedenza licenziato per giustificato motivo obiettivo un dipendente alle stesse assegnato, salvo che siano intervenuti nell'assetto dell'impresa mutamenti organizzativi che postulino l'assunzione o che, in assenza di mutamenti organizzativi successivi al provvedimento risolutorio, la nuova assunzione risulti giustificata da obiettive sopravvenute specifiche ragioni tecnico-produttive dell'impresa (fondate magari su nuove decisioni di politica aziendale, come, ad es., ripristino dell'attività soppressa con parziale riconversione delle mansioni per far fronte a nuove commesse affidate all'impresa).