di Marina Crisafi - Definire "puttaniere" il proprio ex marito davanti a terze persone non integra per forza il reato di diffamazione. Occorre, infatti, valutare il contesto e le modalità dell'espressione, perché oltre che a chi frequenta prostitute il termine può essere riferito anche a chi è alla continua ricerca di avventure. Ad affermarlo è la quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 37397/2016 depositata poche ore fa (qui sotto allegata), annullando la condanna comminata dai giudici di merito nei confronti di una donna per il reato di diffamazione commesso ai danni del proprio ex coniuge. Nello specifico, l'imputata era stata condannata alla pena della multa e al risarcimento del danno per aver dichiarato, di fronte al figlio e alla fidanzata che il suo ex era un puttaniere.
La donna invocava la scriminante dell'esercizio del diritto di critica, avendo proferito l'espressione per aver scoperto la tresca dell'uomo con un'altra nel bel mezzo della causa di separazione.
Per il Palazzaccio la donna ha ragione.
Il requisito della "continenza delle espressioni attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero - postula - una forma espositiva corretta della critica rivolta e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione". Del resto, esso non vieta, hanno ricordato gli Ermellini, "in alcun modo l'utilizzo di termini che sebbene oggettivamente offensivi siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti". Ed è fatto carico al giudice verificare "se la valenza negativa del giudizio espresso possa trovare conforto in elementi positivamente apprezzabili che lo giustifichino e valgano nel contempo ad escludere che si tratti di invettiva volta soltanto ad aggredire la personalità del destinatario, e in ultima analisi ad umiliarlo, al di fuori di un contesto critico e di una funzionalità argomentativa".
Nella specie, il giudice d'appello si è limitato a relegare l'espressione puttaniere nell'area di quelle prive di continenza senza offrire alcuna spiegazione. E una simile conclusione è evidentemente deficitaria, considerato che il termine in questione presenta più di una comune accezione. "Vi è infatti - ha spiegato la S.C. - quella, derivante dalla sua letteralità, di connotazione di persona dedita alla frequentazione di meretrici, indubbiamente capace non solo di offendere ma anche di bollare il destinatario di essa, quando pronunciata al di fuori di una prospettiva ironica". Ma vi è anche quella, "non ineludibilmente incontinente, di donnaiolo, playboy o uomo alla perenne ricerca di avventure amorose frivole e passeggere, che è la accezione riconosciuta nella lingua italiana traslata". Per cui, il ricorso della donna è accolto e la parola passa al giudice del merito che dovrà riesaminare la vicenda tenendo conto dei principi espressi.
Cassazione, sentenza n. 37397/2016