di Marina Crisafi - Niente reato di molestie per le telefonate continue se non c'è il requisito della petulanza. Lo ha affermato la Cassazione, nella sentenza n. 38675/2016 (depositata il 16 settembre scorso e qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di una donna condannata alla pena di 300 euro di ammenda e al risarcimento danni per il reato di cui all'art. 81 e 660 c.p. per aver ripetutamente recato molestie alla persona offesa con telefonate insistenti. Il tribunale rilevava, in particolare, che la donna aveva telefonato più volte alla p.o., ma non ricevendo alcuna risposta, aveva proseguito utilizzando il cellulare di un'altra persona. Il tutto nell'ambito di un conflitto con il fratello circa l'affido della nipote minorenne.
La donna proponeva ricorso per Cassazione osservando che la motivazione era contraddittoria. Per l'imputata, infatti, era da escludersi la "petulanza o biasimevole motivo" nella sua condotta, considerato che la stessa telefonava per aver notizie della nipote di tre anni, anche in considerazione "dei diritti in capo ai parenti del minore in caso di separazione personale" e che comunque la stessa persona offesa aveva ammesso di non aver risposto al telefono non per un personale fastidio ma per il rifiuto della minore di conversare.
Per gli Ermellini la donna ha ragione. Il reato contestato, scrive la prima sezione penale, "punisce chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo". Ai fini della sussistenza del reato, pertanto, "è necessario che il comportamento sia connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone, 'o per altro biasimevole motivo', ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, e che è considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza".
Inoltre, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in questione, "è sufficiente la coscienza e volontarietà della condotta che sia oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone", sicché l'elemento psicologico "sussiste anche quando l'agente esercita (o ritiene di esercitare) un suo diritto, quando il di lui comportamento nei confronti del soggetto passivo si estrinsechi in forme tali da arrecargli molestia o disturbo, con specifico intento di ottenere, eventualmente per vie diverse da quelle legali, il soddisfacimento delle proprie pretese".
Nella specie, sull'elemento soggettivo del reato, sostiene la S.C., la sentenza è motivata solo in modo apparente, giacché non solo omette ogni accertamento sul dolo specifico, ma contiene riferimenti "fattuali che dovevano portare ad escluderlo". In particolare: non vengono specificate il numero delle telefonate; per quelle in partenza dal telefono dell'imputata si allude soltanto all'impossibilità di contattare la persona offesa, impegnata in altre conversazioni; il giudice, inoltre, ha ammesso che le ragioni dell'imputata a effettuare le telefonate riguardavano la possibilità di parlare con la nipote, ma ha considerato integrato il reato avendo di mira gli effetti che dalle chiamate erano rifluiti nella sfera della persona offesa che aveva fatto presente che "lo scopo delle chiamate... fosse in effetti irrealizzabile per l'opposizione della minore".
Tale ragionamento non rispecchia, quindi, per il Palazzaccio, il contenuto della norma che è incentrato sulla molestia dell'atto e non sulla percezione che di esso ha il destinatario.
Per cui, una volta riconosciuto che le telefonate, "contenute e limitate in uno strettissimo arco temporale, vertevano su questioni non futili è illogico definirle petulanti e fonti di disturbo, come se fosse giustificabile il comportamento del genitore che, pur in contesti conflittuali, rifiuti ogni contatto della figlia con i membri della famiglia del convivente". Da qui, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
Cassazione, sentenza n. 38675/2016