di Valeria Zeppilli - In tema di risarcimento del danno da fatto illecito, particolare attenzione merita l'ipotesi in cui il danneggiato, successivamente all'evento lesivo, decede ma per circostanze autonome dall'evento stesso.
Come va stabilito, in questo caso, l'ammontare risarcitorio?
La giurisprudenza degli ultimi anni si è ormai assestata su una risposta ben definita: occorre parametrare la liquidazione del danno biologico (costituito dalle ripercussioni negative all'integrità psico-fisica della vittima del fatto illecito) alla durata effettiva della vita.
Come precisato più volte dalla Corte di cassazione, infatti, in simili ipotesi la durata della vita futura non è più un valore ancorato alla probabilità statistica: essa, piuttosto, diviene un valore noto stante l'indipendenza della morte dall'evento lesivo (cfr. ex multis, oltre a quelle sulle quali ci soffermeremo in seguito, Cass. n. 679/2016, con riferimento alla quale leggi: "Ridotto il risarcimento agli eredi se il congiunto muore per cause estranee all'illecito").
Risarcimento agli eredi ridotto
La conseguenza rilevante di tale assunto sta nel fatto che il risarcimento del danno per gli eredi di un soggetto deceduto per cause indipendenti dal danno è ridotto rispetto al risarcimento che sarebbe spettato non solo se la persona offesa dall'illecito fosse deceduta per una causa ricollegabile alla menomazione derivante dall'illecito, ma anche se la stessa fosse rimasta in vita.
Infatti, nell'ipotesi in analisi è possibile fare riferimento al pregiudizio effettivamente prodottosi in capo al soggetto danneggiato senza dover ricorrere a una valutazione probabilistica connessa alla durata ipotetica della sua vita.
La giurisprudenza in materia
Come detto, tale principio trova ormai pacifico riscontro nella giurisprudenza della Cassazione.
Una sentenza interessante è la numero 19057 del 2003, nella quale si chiarisce che se una persona muore prima della liquidazione del risarcimento, l'incidenza negativa arrecata dal fatto illecito alla sua vita diviene misurabile e rapportabile alla durata della stessa successiva alla menomazione, durata che è effettiva e non probabile.
Qualcosa in più la Cassazione lo ha detto, poi, con la pronuncia numero 2297 del 2011 che, nel valorizzare la presenza di una sofferenza maggiore nel periodo immediatamente seguente l'evento lesivo rispetto a quella successiva, la inquadra nell'ambito della quantificazione del danno biologico (e non del danno morale come fatto dalla sentenza del 2003).
Così facendo la Corte è riuscita a individuare un criterio più equo che permette di parametrare in concreto la liquidazione del danno biologico alla durata effettiva della vita del danneggiato al quale sia derivata una compromissione della salute con esiti permanenti invalidanti.
Le tabelle di Roma del 2013
L'orientamento giurisprudenziale sinora descritto è condivisibile, se solo si riflette sul fatto che sarebbe iniquo risarcire il danno biologico a un soggetto morto dopo un breve lasso di tempo rispetto all'evento dannoso ma per cause indipendenti dallo stesso nella medesima misura del danno risarcibile se egli avesse avuto una vita di durata conforme alle speranze statistiche: il subire una perdita del bene salute per alcuni mesi non è lo stesso che subire una perdita per la restante durata della vita media.
Proprio per tale motivo, le tabelle di Roma del 2013 si sono adeguate alla giurisprudenza in materia e hanno riconosciuto che il danno non cresce giorno per giorno ma si acquisisce in parte subito e in parte in forza dei pregiudizi fisici e psicofisici subiti nel tempo successivo. Ciò vuol dire che il risarcimento si fonda su due quote: una rappresentata dalla percentuale di danno subito immediatamente in conseguenza della lesione e l'altra rappresentata dalla percentuale calcolata tenendo conto della concreta sopravvivenza.