di Lucia Izzo - Va condannato per diffamazione a mezzo stampa il giornalista che, in un suo articolo, utilizza l'espressione "padrino", poichè questa evoca, oltre alla connotazione prettamente mafiosa del termine, una persona che agisce in modo parallelo al potere dello stato per ottenere illegittimi vantaggi.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione quinta penale, nella sentenza n. 44107/2016 (qui sotto allegata). La Corte d'Appello aveva confermato la condanna del ricorrente per diffamazione a mezzo stampa, osservando che il temine "padrino", utilizzato dall'imputato nel suo articolo di stampa per appellare un avvocato, avesse connotato diffamatorio evocando persona potente che agisce in modo parallelo al potere statuale anche a voler dimenticare la connotazione propriamente mafiosa del termine.
Innanzi agli Ermellini, invece, l'uomo sostiene che l'espressione, nel contesto dell'articolo, appariva utilizzata solamente per indicare persona destinataria d'eredità forse non meritata. Tuttavia, per la Cassazione il ricorso è privo di fondamento giuridico e va rigettato.
L'alternativa ricostruzione offerta dall'impugnante non supera la motivazione della Corte distrettuale che ha illustrato come il termine utilizzato lumeggiava come la parte offesa avesse ottenuto vantaggi sociali e professionali, superiori alle sue effettive capacità personali, per l'intervento di un "protettore" che agiva in modo "trasversale" nell'ambito delle istituzioni statuali, ossia in modo comunque non commendevole e trasparente.
Quindi non concorrono i vizi di legittimità denunziati poiché la Corte d'Appello non ha attribuito arbitrariamente alla frase d'imputazione significato secondo ricostruzione meramente soggettiva, bensì, stante l'inequivoca allusione agli incarichi lucrosi ricevuti, ha colto il significato oggettivo del termine teso proprio a lumeggiare la circostanza che l'avvocato ebbe a godere di favoritismi poco trasparenti da parte di soggetto potente.
Cass., V sez. pen., sent. 44107/2016• Foto: 123rf.com