di Lucia Izzo - Pizzeria in un condominio? Se il regolamento condominiale non lo proibisce espressamente, i condomini possono mutare la destinazione d'uso dell'appartamento e adibirlo ad attività commerciale. La compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, infatti, deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nella sentenza n. 21307/2016 (qui sotto allegata). La vicenda originata dall'istanza di risarcimento danni e ripristino status quo ante avanzata dal proprietario dell'appartamento confinante con quello di alcuni condomini i quali, in violazione del regolamento condominiale e di una delibera assembleare, avevano adibito il loro immobile, destinato esclusivamente ad uso abitativo, a pizzeria, mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terraneo, adibito a sua volta a pizzeria-ristorante, creando in tal modo intollerabili immissioni di rumori.
La Corte d'Appello, accoglie la richiesta sulla base della clausola del regolamento condominiale secondo cui "I locali cantinati e i terranei potranno essere destinati ad autorimesse, a deposito, ad officina tecnicamente organizzata con rumorosità però da non superare i limiti consentiti dalle disposizioni di P.S. e comunale ed all'esercizio di qualsiasi attività commerciale, industriale, artistica e professionale, nonché ad uffici, senza alcuna limitazione".
Secondo la Corte distrettuale, la previsione di una specifica possibilità di utilizzo solo per i detti locali (ossia quelli cantinati e terranei e non siti ai piani superiori) imponeva di ritenere che ab implicito per gli altri locali, quale appunto l'appartamento degli appellati, fosse vietata una diversa destinazione.
Una decisione ribaltata in sede di legittimità, dove l'attenzione si sposta, invece, sul tenore letterale e sul significato delle espressioni contenute nel regolamento.
Per gli Ermellini, in relazione all'interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si è ribadito in giurisprudenza che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento.
Per "senso letterale delle parole" deve intendersi tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.
Tale necessità, ancorata all'esigenza di limitare al massimo la compressione delle proprietà individuali, impone quindi un'interpretazione del regolamento fondata sulla chiarezza ed univocità del tenore e delle espressioni letterali, dovendosi rifuggire quindi da un'esegesi invece ancorata alla ricostruzione di una volontà implicita, come invece accaduto nella fattispecie, trascurandosi altresì l'adeguamento al canone interpretativo di cui all'art. 1363 c.c., che, tenuto conto dell'esistenza di altre previsioni in materia di limitazioni della proprietà individuale, avrebbe dovuto imporre di valutare le limitazioni alla proprietà individuale secondo un principio di tendenziale e rigida tassatività.
Pertanto, solo le limitazioni espressamente previste possono reputarsi operative, mentre laddove il regolamento non sia sufficientemente preciso, non possono desumersi divieti impliciti come invece avvenuto ad opera della Corte d'Appello. La sentenza dovrà essere quindi cassata con rinvio ad altra sezione.
Cass., II sez. civ., sent. 21307/2016• Foto: 123rf.com