di Marina Crisafi - Le prostitute, come tutti i contribuenti, devono pagare le tasse per l'attività di meretricio e a nulla rileva che la stessa sia abituale o saltuaria. Dopo il "polverone" sollevato l'estate scorsa dalla decisione della Commissione Tributaria di Savona (leggi: "Anche la prostituta deve pagare le tasse"), a consacrare ora questo principio è la Cassazione, con una sentenza depositata ieri (la n. 22413/2016 qui sotto allegata), rigettando il ricorso di una contribuente.
La vicenda riguardava una donna che non aveva mai presentato la dichiarazione dei redditi pur versando in banca somme altissime di denaro (negli oltre 10 conti correnti attivi), essendo proprietaria di diverse unità immobiliari locate e di numerose autovetture e tenendo un tenore di vita piuttosto lussuoso.
Ciò era bastato a far scattare l'accertamento da parte del fisco. La donna si era difesa sostenendo che i redditi erano il provento dell'attività di prostituzione esercitata e dunque esenti ma la tesi non aveva convinto i giudici di merito che invece li avevano ritenuti tassabili, almeno "quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante versamento di assegni".
Sia la donna che l'Agenzia delle Entrate si rivolgevano, dunque, al Palazzaccio e da piazza Cavour davano ragione all'amministrazione.
Per la sezione tributaria della Suprema Corte, infatti, il giudice della Ctr ha correttamente rilevato che il fisco ha proceduto "all'accertamento d'ufficio ai sensi dell'art. 41 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 con riferimento alle annualità per le quali non è stata presentata denuncia dei redditi; con riferimento all'annualità per la quale è stata presentata dichiarazione, ha proceduto a norma dell'art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 riguardante la rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche, che espressamente richiama le metodologie previste dall'art. 39 stesso d.P.R., tra le quali l'utilizzo dei dati e delle notizie raccolti dall'ufficio nei modi previsti dall'art. 32 (nella specie accertamenti bancari)". Bene ha fatto, inoltre, la Ctr a non qualificare "i proventi dell'esercizio dell'attività di prostituzione quali redditi di impresa - inquadrandoli invece - ai sensi degli artt. 6 e 67 lett. l) del d.P.R. 29 settembre 1973 n.602 quali 'redditi diversi derivanti dall'attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare'. Irrilevante, infine, la pretesa contraddittorietà della motivazione, asserita dalla donna, con riguardo al fatto che la contribuente "svolgeva attività di prostituzione in forma occasionale pur avendo clienti abituali". L'esercizio del meretricio, hanno sentenziato infatti gli Ermellini, "occasione o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi in ogni caso di proventi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi prevista dall'art. 6 comma 1 lett f) d.p.r. n. 917/1986". Per cui il ricorso delle entrate è accolto.
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Cassazione, sentenza n. 22413/2016