di Roberto Cataldi - Non si può non restare stupiti di fronte alle parole che il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, ha pronunciato nei giorni scorsi a Bologna.
Un j'accuse di pancia, con cui Davigo sembra voler affrontare un tema di cui non conosce la reale portata, mostrando di aver sposato il luogo comune secondo cui tutti i mali della giustizia siano da ricondurre all'avvocatura.
Che in Italia ci si sia assuefatti alle banalità e ai luoghi comuni è oramai cosa assodata, ma che simili parole provengano da chi è stato anche nominato presidente di sezione presso la Corte di Cassazione lascia non poco perplessi.
Le parole di Davigo mostrano un ingiustificato sentimento di avversione e di disprezzo nei confronti dell'avvocatura italiana e sembrano più il risultato di un'analisi superficiale dei problemi della giustizia che il frutto di una riflessione critica e approfondita.
Nel suo discorso arriva ad affermare che "per far funzionare meglio la giustizia in Italia" ci vorrebbe il numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza e che occorre "disincentivare chi fa girare a vuoto la macchina della giustizia". Di fatto, arriva a formulare l'equazione "malagiustizia" = "troppi avvocati", una semplificazione che appare di una banalità disarmante.
Forse Davigo dovrebbe fare qualche riflessione in più su quelli che sono i reali problemi della giustizia in Italia e sulle cause che li hanno determinati. Si accorgerebbe che sono legati a un insieme di fattori completamente avulsi dal ruolo dell'avvocatura.
Innanzitutto bisogna considerare che, se da un lato ci sono magistrati di grande spessore umano e di notevole caratura sul piano tecnico, è anche vero che al loro fianco ci sono giudici mediocri e spesso impreparati. Il risultato è che assistiamo sempre più spesso a un numero impressionante di sentenze che contengono errori grossolani e imbarazzanti. Sentenze di questo tipo dimostrano non solo una scarsa conoscenza del diritto, ma anche una lettura superficiale degli atti di causa. E non è forse questo uno dei motivi che determina l'aumento dei procedimenti di appello e dei ricorsi per Cassazione?
La lentezza della giustizia, poi, non è un problema determinato dagli avvocati (che invece lo subiscono) ma va ricondotta ad un fattore organizzativo. Non è certo colpa dei legali se una causa che potrebbe concludersi in pochi giorni viene rinviata di sei mesi in sei mesi e se, a istruttoria conclusa, per precisare le conclusioni si fanno rinvii di due anni. E questa lentezza non fa altro che creare un accumulo inverosimile di arretrati.
Parliamoci chiaro: se oggi il mondo della giustizia è in una situazione di cronica emergenza ed è diventato così distante dalle esigenze dei cittadini non è certo per colpa dell'avvocatura. Anzi è proprio l'avvocatura a subire i maggiori disagi che derivano dalla disorganizzazione e dalla mala gestio del personale di magistratura. Situazioni mai risolte che continuano a creare quotidianamente una serie infinita di problemi per il mondo forense: è sempre più raro trovare un magistrato che arrivi puntuale in udienza e spesso si è costretti a ore di snervante attesa perché non tutti i giudici fissano delle fasce orarie.
Forse Davigo non ha considerato che a partire dal 1990 il legislatore ha dato inizio a un continuo rimaneggiamento delle regole processuali. Questi interventi hanno dato luogo al proliferare di una serie di "trappole procedurali" che hanno complicato e rallentato i processi e hanno fatto sì che il diritto sostanziale venisse messo in secondo piano. Così, oggi si può perdere una causa anche se nella sostanza si ha ragione. Oggi un avvocato è costretto a prestare maggiore attenzione a non commettere errori di procedura (troppo spesso resi dal legislatore immotivatamente irrimediabili) piuttosto che a impegnarsi a valorizzare le ragioni di merito del proprio cliente.
Insomma, abbiamo a che fare con una giustizia intrisa di un formalismo esasperato, indegno per una civiltà giuridica moderna e che ingolfa il sistema giustizia. E ad aggravare la situazione c'è anche quella una grave incertezza del diritto dovuta più che altro al proliferare di prassi e orientamenti giurisprudenziali che cambiano da una città all'altra e che finiscono con l'aumentare le liti.
Se si vogliono superare questi problemi, non si può puntare il dito contro l'avvocatura e forse, caro Davigo, bisognerebbe prima risolvere i problemi di casa propria giacché una vera svolta richiede in primo luogo un approccio diverso sia da parte del legislatore sia da parte della magistratura.
Ma così non è. Anzi, assistiamo quotidianamente a provvedimenti incomprensibili. Eclatante il caso di un magistrato che ha respinto una richiesta di prova testimoniale in un processo civile soltanto perché l'avvocato aveva anteposto ai capitoli le parole "vero che…". Un altro magistrato, poi, ha respinto un ricorso telematico di un avvocato con la motivazione che sul PC non poteva piegare le pagine per mettere in evidenza quelle più rilevanti.
Vogliamo dimezzare il numero dei procedimenti e velocizzare i processi? Bene, cominciamo a ridurre il numero di errori giudiziari e di provvedimenti abnormi. In questo modo è certo che sarà sempre meno necessario dover scomodare le corti di appello o la Corte di Cassazione. Cerchiamo poi di puntare verso la semplificazione delle regole processuali e la emendabilità degli errori procedurali.
E sarebbe anche il caso di sfatare un luogo comune: quello secondo cui sono gli avvocati a incrementare la litigiosità.
Spesso sono le grandi aziende e le pubbliche amministrazioni che si dimostrano refrattarie a ogni forma di trattativa alimentando così il contenzioso. Altre volte le liti tra privati sono alimentate dal fatto che il legislatore non è in grado di scrivere testi di legge in un italiano comprensibile dando adito a tante diverse possibili interpretazioni. E un aiuto potrebbe darlo anche la magistratura data la numerosa presenza di magistrati distaccati negli uffici legislativi e nei ministeri.
In sostanza, se il numero degli avvocati in Italia è un problema, lo è solo per i membri del settore dell'avvocatura, dato che non c'è lavoro a sufficienza per tutti. Ma è evidente che questo problema non incide in alcun modo sull'andamento della macchina giudiziaria. Vogliamo parlare di numero chiuso nelle facoltà di giurisprudenza? Possiamo farlo, purché la regola sia la stessa per tutte le università. In caso contrario, è inevitabile che i limiti di accesso in alcune facoltà si traducano in un sovraffollamento nelle altre.
Dalle parole di Davigo emerge anche la convinzione che gli avvocati siano una lobby inattaccabile fortemente legata al proprio onorario che si dimezzerebbe con la riduzione dei processi. Forse è il caso di ricordare che gli onorari degli avvocati sono stati già dimezzati quando sono state abolite le vecchie tariffe professionali, che fin troppo spesso le spese di lite vengono immotivatamente compensate e che oggi molti giovani avvocati non arrivano a guadagnare in un anno quello che un magistrato di Cassazione percepisce come stipendio in un solo mese. In questo scenario come si fa a parlare di lobby?
In sostanza, caro Davigo, i problemi della giustizia non si risolvono certo dimezzando il numero degli avvocati. E da quanto detto dovrebbe risultarle evidente che chi sta remando contro lo sviluppo di una civiltà giuridica moderna in Italia non sono di certo gli avvocati. Questi sono soltanto alcuni dei tanti attori della macchina della giustizia. Fino a che tutte le componenti di questa macchina non saranno perfettamente coordinate tra loro e fino a che le procedure non saranno fluide, snelle e razionali non potranno esserci miglioramenti sostanziali. I problemi della giustizia italiana si possono risolvere ma c'è bisogno di un cambiamento più profondo che deve abbracciare tutto il sistema e tutte le parti che lo compongono.
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