di Roberto Cataldi - "Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato". Così Franz Kafka dà inizio alla vicenda umana e giudiziaria del protagonista de "il Processo", un tranquillo impiegato bancario che si trova improvvisamente accusato di un reato misterioso, per una colpa che ignora.
Inizia il suo peregrinare tra le sordide aule di un tribunale, anch'esso inaccessibile e misterioso, presente un po' dappertutto, "quasi in ogni solaio", ma in realtà in nessun luogo tangibile; viene a contatto con avvocati e funzionari interessati all'applicazione di procedure arbitrarie e incontrollabili, piuttosto che all'esame della presunta colpa.
Lo stupore di Josef, la sua ostentata tranquillità nei confronti di quello che considera uno scherzo o una volgare montatura destinata comunque a risolversi presto e nel migliore dei modi, si trasformano progressivamente in angoscia e ansia claustrofobica. Le abitudini quotidiane e il lavoro vengono assorbiti dagli incontri e dagli impegni in vista del processo. Non è la razionalità o una qualsiasi logica a scandire la sua vicenda giudiziaria, ma esclusivamente la necessità, cioè gli "atti dovuti" che compie sperando nella loro efficacia difensiva.
L'unica, concreta possibilità di salvezza gli viene indicata da Leni, la cameriera del suo avvocato: "La smetta di essere così poco arrendevole - gli dice - .... Faccia la confessione alla prima occasione. Solo allora c'è la possibilità di sgattaiolare, solo allora".
Solo una resa incondizionata lo aiuterebbe, ma la sua ostinazione a proclamarsi innocente lo conduce all'inevitabile condanna di un processo "elaborato in corti inaccessibili, in cui anche l'imputato non è più alla portata del suo avvocato".
"Il Processo" snoda la sua trama in chiave allegorica e metaforica, eppure, lo stupore di Josef non può non suonare familiare alle orecchie di chi svolge la professione forense.
Troppe sono infatti le persone che d'improvviso si trovano immerse in una realtà, quella del mondo giudiziario, sconosciuta e inaccessibile, giudicata il più delle volte ostile, costrette a doversi misurare con norme e leggi di cui non comprendono l'utilità, ma di cui percepiscono esclusivamente la funzione coercitiva o, peggio, l'assoluta vacuità, con una giustizia sempre più distante dalle esigenze più autentiche dell'uomo.
Ingiustamente accusate o comunque vittime di una ingiustizia, compiono un percorso non molto dissimile da quello di Josef K.: la stessa ansia, la stessa meraviglia, lo stesso "sfinimento", lo stesso processo.
Le procedure (sia in sede civile, sia in sede penale) sono inaccessibili ai non "addetti ai lavori" e l'avvocato assume il ruolo di demiurgo tra l'arcano, inafferrabile mondo della Legge e la realtà "terrestre" del suo assistito che attende, speranzoso, quel gesto risolutore capace di toglierlo in fretta dai guai e restituirlo alla vita quotidiana.
Credo sia compito anche di noi avvocati rivendicare un processo alla portata di tutti, a misura d'uomo, momento della verità e della giustizia, non dell'arbitrio, della casualità, del cavillo salvifico. Ciò in realtà significa combattere incessantemente il nemico storico della giustizia: il formalismo, che, nel romanzo kafkiano, si configura come inestricabile e angosciante labirinto di formule vuote e inafferrabili, del quale Josef non riesce a cogliere (né gli viene rivelata) una superiore logicità, ma da cui deve solamente difendersi.
I personaggi che animano l'opera di Kafka, nel momento in cui discettano di legge, appaiono tutti molto sicuri di quello che dicono e fanno ma, chiosa amaramente l'autore, "la loro sicurezza è possibile solo grazie alla loro stupidità". Essi non hanno coscienza dell'inutilità delle loro azioni, dimostrano di seguire modelli di comportamento atavici, vuoti nella sostanza, ma curatissimi nella forma, privi di attinenza con le reali esigenze di giustizia.
Quando l'unico riferimento che si ha è il rispetto o meno della forma, delle procedure seguite o l'incondizionata e letterale applicazione della legge, non di rado si hanno decisioni la cui unica, possibile definizione è proprio quella kafkiana di stupidità.
Le leggi, sia chiaro, non possono essere lasciate o sottoposte a nessun tipo di arbitrio, ma un operatore della giustizia deve sforzarsi di mettere al bando gli aspetti deleteri del formalismo, adottando come criterio quello della semplicità che è altro rispetto alla superficialità. Anzi, ne è la discriminante e l'effettiva antagonista.
Con questo non voglio dire che non si debba prevedere alcun tipo di forma per il processo, perché talvolta il rispetto di forme si risolve in esigenza di giustizia; voglio invece denunciare l'esasperato e insensato formalismo che pervade oggi il sistema "Giustizia".
In ambito civile, per fare un esempio, abbiamo assistito a un continuo rimaneggiamento del codice di procedura che non hanno affatto semplificato il processo ma, anzi, lo hanno reso estremamente farraginoso con il rischio che un cittadino possa perdere una causa anche se nella sostanza ha ragione (v. Il processo civile e la semplicità perduta).
Se ci fosse una maggiore attenzione all'aspetto sostanziale delle vicende piuttosto che a quello formale potremmo evitare fin troppe decisioni umanamente ingiuste sia pur emesse nel rispetto delle leggi.
Ma come è possibile, si dirà, stabilire un universale concetto di giustizia e di ingiustizia a cui rapportarsi? La risposta al quesito meriterebbe di per sé una trattazione enciclopedica. Per questo mi limito ad affermare che vi è negli uomini quello che Hume chiamava "un sentimento generale dell'interesse comune", un magma di istinti e passioni riconducibili a unità con la forza della ragione, una sorta di universale codice a cui tutte le legislazioni dei singoli Stati tendono o dovrebbero tendere.
Tutti in fondo sappiamo avvertire, attingendo nel profondo del nostro animo, ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Scriveva Voltaire: "Non si tratta se non di servirci della nostra ragione" e, aggiungerei, del nostro cuore, "per distinguere le sfumature dell'onesto e del disonesto". L'illimitata fiducia illuministica nelle capacità razionali dell'uomo è stata inficiata dalla storia, ma tutti possono comunque percepire l'ingiustizia.
Se vogliamo davvero recuperare un ordinamento giuridico a misura d'uomo, dobbiamo compiere ogni possibile sforzo per mettere al bando ogni tentativo di affossare i diritti sostanziali in nome di un formalismo esasperato e irrazionale.
Attraverso l'imposizione della priorità delle forme il legislatore ci sta rendendo stupidamente vincolati a regole che la nostra stessa coscienza rinnega con l'effetto di ridurre l'attività di un avvocato a quella di chi deve principalmente prestare attenzione alle procedure piuttosto che al merito.
E' diventato sempre più urgente il bisogno di ridefinire e ricollocare compiutamente i concetti spesso confusi di giustizia e legalità. Ma è indispensabile ascoltare anche quelle voci di chi, pur non intendendosi di giustizia, ha tuttavia la capacità di dare ascolto al suo cuore.
Sono voci che spesso vengono amplificate e "gridate" dai generi più popolari dell'arte.
Si pensi al contributo dato dal cinema.
Emblematiche due pellicole della commedia all'italiana: "Crimen" di Mario Camerini (1960) e "Detenuto in attesa di Giudizio" di Nanni Loy (1971).
Nella prima il protagonista, pur innocente, è costretto a mentire per salvarsi. Ciò lo conduce inesorabilmente in trappola: significativa la scena in cui si congeda dal Commissario e anziché uscire dalla porta si chiude in un armadio a muro.
Nella seconda alle sfumature grottesche si aggiunge uno spessore tragico che rende la storia molto simile a quella kafkiana.
Possiamo riconoscere nel volto del protagonista (Alberto Sordi) lo stesso stupore di Josef, lo stesso desiderio, la stessa illusione che tutto si possa risolvere con il buon senso.
Come è accaduto a Josef, il mondo giudiziario gli è piombato addosso quando meno se lo aspettava, "senza che avesse fatto niente di male": viene fermato alla frontiera per un controllo, per "una semplice formalità". Di lì ha inizio la sua drammatica avventura che lo porta all'esasperazione.
Memorabile, in particolare, la scena in cui il detenuto recluso in una cella, che è una specie di topaia, rivolge lo sguardo alla macchina da presa quasi come un grido silenzioso di aiuto.
Scagionato torna alla vita di sempre, ma l'esperienza gli ha lasciato un segno incancellabile, lo ha visibilmente prostrato.
Nuovamente fermato per un controllo, "una semplice formalità", non gli resta altro da fare che darsi alla fuga.
Il film denuncia l'improrogabile esigenza di una radicale trasformazione del sistema giudiziario con cui siamo chiamati a confrontarci quotidianamente.
Ma non illudiamoci che per una giustizia più umana basti solo una riforma dei codici e delle leggi; occorre prima una trasformazione della nostra coscienza, una comprensione profonda di quelle che sono le reali esigenze di giustizia a cui anche le nostre leggi dovrebbero cercare di conformarsi.