di Valeria Zeppilli - Le offese su Facebook non sono solo semplice diffamazione: si tratta, infatti, di diffamazione aggravata, con tutto quel che ne discende anche in termini di competenza a decidere.
Con la sentenza numero 50/2017 del 2 gennaio (qui sotto allegata) la Corte di cassazione ha ribadito che l'uso della bacheca di tale social network rende l'offesa potenzialmente capace di raggiungere un numero di persone indeterminato o comunque apprezzabile quantitativamente.
I giudici, in particolare, hanno chiarito che la natura di "altro mezzo di pubblicità" che la norma penale richiede affinché l'aggravante possa dirsi integrata non è esclusa dal fatto che il social network è accessibile solo a coloro che si sono registrati sul relativo sito. A rilevare, infatti, è esclusivamente la circostanza che lo strumento di comunicazione abbia una potenzialità diffusiva, mentre a nulla importa il fatto che il contenitore dell'offesa abbia una libertà d'accesso non indiscriminata.
Del resto, come ricorda la Corte, la giurisprudenza in passato ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui all'articolo 595, comma 3, del codice penale anche in caso di comunicazione diffamatoria attraverso il fax e attraverso la posta elettronica inviata a più destinatari (vedi, rispettivamente, Cass. n. 6081/2015 e Cass. n. 29221/2011).
Insomma: l'aggravante c'è se il mezzo utilizzato è in qualsiasi modo idoneo a "coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando - e aggravando - in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa".
Da tutto ciò discende che competente a decidere la questione inerente le offese su Facebook è (e sarà nel caso di specie) il Tribunale e non il Giudice di pace.
Corte di cassazione testo sentenza numero 50/2017• Foto: 123rf.com